Italiani Servili?No:Diamo e Daremo

i i GESARE Garboli, tallonato da un'ottima intervistatrice, Simonetta Fiori, ha caratterizzato impietosamente dieci e più secoli di storia italiana («La vocazione del nostro paese è una vocazione servile, nel bene e nel male... Noi abbiamo servito tutti i popoli della terra. Greci, bizantini, barbari, francesi, spagnoli, inglesi, austriaci, persino russi e infine piemontesi...») e ha elencato alcuni dei possibili nostri caratteri fondamentali: «scetticismo, cinismo, religione, pietà» {Repubblica, sabato 7 giugno). Garboli è un uomo molto intelligente e colto: e tentare di ribaltare una prospettiva simile è semplicemente vano. Del resto, non è il primo a sollevare scandalo con simili argomentazioni. Ricordole polemiche che suscitarono le bellissime pagine di Giulio Bollati su L'italiano, venticinque anni orsono (primo nucleo di un libro fondamentale, che ancora si ristampa): e undici anni fa, su invito di Alberto Asor Rosa, una studiosa che non ha paura del cognome che porta, Maria Serena Sapegno, ci spiegò, in un ampio saggio, dietro quali feticci gli italiani avessero nascosto l'assenza di un'Italia: la lingua, l'odio per i barbari, l'idea di «culla della civiltà», la difesa della tradizione poetica. Il punto non è ribattere a Garboli: ma cercare di fare un passo avanti, sul piano della riflessione, se non si vuole impantanarsi nelle secche di un antipatico neogiobertismo («il popolo italiano non sussiste», tuonava il nostro abate da quel di Capolago nel 1843). E ce la suggeriscono, codesta riflessione, altri autorevoli studiosi. Mi scuso con il lettore se attingo, per la terza volta, da libri Einaudi. La sezione più inventiva di quell'opera tutta innovativa che fu la Storia d'Italia, ideata e curetta da Ruggero Romano e Corrado Vivanti, si intitolava «L'Italia fuori d'Italia». In essa Le Goff, Fernand Braudel, Franco Venturi e Robert Paris si chiesero cosa pensavano di noi in Europa, dal Medioevo ad oggi, e, cosa, soprattutto, noi avevamo dato all'Europa lungo quell'arco di tempo. Braudel ebbe agio di scrivere pagine memorabili, anche per forza suasoria, ad esempio, sull'Atlantico nelle mani dei mercanti italiani nel Cinquecento, ma anche, con sorpresa di molti, su un secolo tradizionalmente «buio» per noi, il Seicento, in cui invece l'Italia è responsabile nei confronti dell'Europa «di una serie di creazioni moderne, che vanno assai oltre le forme religiose o sensibili che ha inventato. Crea il teatro moderno, crea l'opera, si pone sotto il segno della ricerca scientifica sperimentale, crea la scienza fondamentale moderna». Quella è, paradossalmente, per l'Italia «un'età europea». E Venturi, con quel suo distacco freddo, aveva modo di osservare che persino il discusso Risorgimento aveva fatto scrivere a Quinet: «I mah che noi soffriamo, l'Italia li ha smaltiti, i problemi che dibattiamo, li ha percorsi...». Oggi si fa un gran parlare d'Italia non solo in Europa, ma anche per l'Europa. Se ne sono improvvisati specialisti i pubblici amministratori, che in realtà ne sanno pochissimo. Perché non ci rimettiamo a studiare e a riflettere seriamente su quanto, poveri italiani senza nazione né libertà, abbiamo in passato donato agli altri, e su quanto, ancora, potremmo in futuro donare? Guido Davico Bonino