Le silenziose atrocità dell'anima

il caso. Il fenomeno dei suicidi e dei delitti giovanili: tre psichiatri ne denunciano il caso. Il fenomeno dei suicidi e dei delitti giovanili: tre psichiatri ne denunciano le cause familiari Le silenziose atrocità dell'anima Viaggi alle radici di solitudine e violenza K ICORDO i libri che mi hanno lasciato inquieto», si legge in un appunto di Baudelaire. L'inquietudine si fa più fonda quando alcuni di questi libri sembrano riferirsi, anche se indirettamente, a atroci fatti che colmano purtroppo la nostra cronaca quotidiana: adolescenti che si tolgono la vita senza un motivo apparente giovani che senza un motivo sopprimono i genitori. Tre libri giunti in libreria e pubblicati dallo stesso editore (se la coincidenza di date è intenzionale, complimenti), lasciano addosso al lettore, al lettore non specialista, una notevole ^quietudine. L'editore è Feltrinelli, due sono opere originali di studiosi italiani, una è una traduzione dall'americano. Ciò che accomuna i tre autori è d'essere tutti e tre psichiatri, ma l'approccio e i temi sono assai diversi. I tre libri parlano infatti di identità, soUtudiiie, violenza. Giovanni Jervis, sessantaquattrenne docente di Psicologia dinamica alla Sapienza (una delle menti più lucide della tutta agguerrita ex équipe di Franco Basaglia), ci propone La conquista dell'identità. Essere se stessi, essere diversi. E' un'introduzione di esemplare chiarezza (una bella smentita, tra l'altro, all'incapacità a divulgare, ad alto livello, degli italiani) a «riconoscersi ed essere riconoscibili»: un processo, spiega, l'autore, che non può non passare attraverso «un senso di autoappartenenza». Per appartenersi occorre sapersi autodescrivere e dunque autodefinirsi. Ma sappiamo veramente chi siamo? E non tendiamo forse (come, ad esempio, sostiene Freud) a ingannarci su noi stessi? Per capirsi, bisogna, tra l'altro, accettarsi «al passato», prendendo atto che «il passato è oggettivamente immodificabile», e «al presente», cioè «sapere le risorse di cui si dispone». Guidando il lettore con mano ferma a un'idea di identità che nell'universo della modernità esige una sua tutta particolare autonomia e, in ultima istanza, tende a una più criticamente cosciente realizzazione di sé, Jervis, da quello studioso corretto che è, non gli na- sconde che esistono identità ((precarie, minacciate e negate», così come esistono identità «false». Ho citato a bella posta i titoli dei due più affascinanti e inquietanti capitoli dell'opera. Muovendosi con grande duttilità tra studi scientifici e suggestivi riferimenti letterari, Jervis ci lascia intendere sin troppo chiaramente come la nostra identità, se sussiste, abbia bisogno di appigli anche rninùni, come gli «oggetti relazionali» di Winnicott (l'orsacchiotto sudicio e maleodorante di tante infanzie, il ((topo bianco d'avorio» della Dora Markus di Montale); come sia di continuo minacciata da insicurezze «d'immagine», «di consistenza» e persino da «crisi di presenza». Quanto alle identità false (che non sono le false identità dell'agente segreto o del mafioso) Jervis cita, tra le altre, la confessione del brigatista Mario Moretti («C'è qualcosa di peggio dello stare in galera... Perdere la propria identità») per suggerire come non si tratta, a suo giudizio, della rinuncia ad una ((forte» identità politica, ma semmai della perdita di ((una esaltante sensazione di potere»: che viene dall'«essere convinti di avere il diritto, in qualsiasi momento, di porre termine alla vita di persone che, ignare, camminano per la strada». Memorie di assenze (uno dei significati del sostantivo è indubbiamente «assenza di identità») è il sottotitolo di Solitudini di Paolo Crepet, docente di Psicopatologia dell'adolescenza a Napoli e Siena, ed esperto (lo scriviamo con un brivido) nel campo del tentato suicidio. Quattro storie vere di pazienti, accolti da Crepet nel suo studio di psichiatra, trascritte in forma di testimonianza e schermate solo quel tanto che basta ((per garantirne l'anonimato». Tre donne e un adolescente si confessano: due di queste confessioni non si possono leggere senza provare disagio e pietà. La giovane donna, che nella fanciullezza ha covato dentro di sé un rapporto d'affetto, umiliato e offe¬ so, verso il padre, presto voltosi in odio, viene poi trascinata in una deriva di relazioni sessuali indistinte e senz'ombra d'amore: «Era un segno inciso tanto tempo addietro, ingiusto ma indelebile, il totem della mia infelicità». Da quella infanzia, felice pur nella sua disperata brevità, ritorna, negli incubi dell'adulta, che non riesce più a frenare la propria discesa agli inferi, un odore aborrito: l'odore del borotalco, di cui il padre era inondato dal proprio barbiere. Ed un'altra giovane, che ha tentato il tutto per tutto per scalfire la glaciale indifferenza materna, che ha spavaldamente imboccato l'itinerario delle più varie diversità, bulimia compresa («Avrei voluto urlare le cose di cui avevo bisogno io, ma temevo che anche quello sfogo sarebbe rimasto inascoltato») non ha che un incubo ricorrente di cui pascersi: lei che scivola su un terrapieno, di balza in balza, verso il vuoto, mentre una donna anziana percorre lo stesso itinerario, ma a ritroso, verso una morte opposta e complementare. A leggere un libro come questo ci si sente impotenti dinnanzi a un esubero dell'affettività, in un universo che non sembra trovare i modi per canalizzarla, e neppure per comunicarla. Se le quattro storie di Crepet, nella loro inarticolata secchezza, lasciano turbati, a leggere il terzo libro, Donne die si fanno male di Dusty Miller nell'incisiva traduzione di Margherita Bignardi, si resta sconvolti. Da ignari di medicina, e più in particolare di psicologia clinica, si fa la conoscenza di una nuova forma di sindrome, la cosiddetta Trs, o «sindrome da rimessa in atto del trauma». La Miller insegna nella Scuola di specializzazione della facoltà di Medicina ad Antioch nel New England, e si è dedicata con straordinario impegno a curare donne che nell'infanzia hanno subito abusi di natura diversa: il più ricorrente è, purtroppo, l'incesto, ma possono anche essere state oggetto di abbandono affettivo o, all'opposto, di un ossessivo iperprotettivismo. Divenute adulte, queste donne infliggono al proprio corpo, in forme letterali o analogiche, lo stesso trauma subito allora: si lasciano morire di denutrizione o si rimpinzano di cibo, si affidano a diete mortali o a chirurgie plastiche devastanti, ma spesso, di nascosto da tutti, si feriscono con le proprie mani, torturandosi con sanguinaria ostinazione. La dottoressa Miller, che a sua volta ha subito un incesto da bambina, lavora con ciascuna d'esse per anni: lunghe stagioni di estenuanti colloqui per aiutarle a sopravvivere alla rabbia verso se stesse, ma soprattutto per «liberare la vergogna, che tra tutti i sentimenti è quello più insopportabile. Quando arriva a conoscerla a fondo, la donna Trs ha già percorso più di metà del suo cammino attraverso l'incubo». Guido Davìco Bonino Giovanni Jervis e le insicurezze della perdita di identità e dell'incapacità di accettare il proprio passato Paolo Crepet racconta quattro storie di affetto umiliato e offeso; Dusty Miller spiega la ripercussione sulle donne degli abusi infantili miliato Qui sopra, Giovanni Jervis; accanto, Paolo Crepet; più a destra lo psichiatra Franco Basaglia

Luoghi citati: Antioch, Napoli, Siena