Il «Corvo» di Palermo? Era Riina di Francesco La Licata

Il «Corvo» di Palermo? Era Riina RETROSCENA LE MANOVRE PER IL POTERE m COSA NOSTRA Il «Corvo» di Palermo? Era Riina Nell'89 Falcone e De Gennaro vittime della sua strategia SPALERMO OSPETTI, depistaggi, reciproche false dichiarazioni di stima, omicidi «gratuiti» fatti solo per confondere le idee agli avversari. Una pace finta, quella di Cosa nostra ultima maniera. Specialmente dopo che è venuto meno il timore riverenziale verso don Totò Riina, segregato a Pianosa. Sotto la cenere della falsa unità covava la brace dell'odio mai represso, dell'ambizione smisurata, delle recriminazioni verso un gruppo dirigente accusato di aver portato «tutti allo sbaraglio». Una fronda silenziosa, piccoli movimenti sotterranei alla ricerca di un nuovo leader capace di traghettare le «famiglie» verso una svolta, un ritorno all'antico sistema della «pacifica convivenza». E lui, Pietro Agheri, aveva un ruolo centrale in questi sommovimenti sotterranei, oggi conosciuti grazie alle rivelazioni di molti collaboratori di giustizia. Verbali su verbali, alcuni dei quali hanno già mandato in carcere alcune persone, come per esempio Vincenzo Montalto e Andrea Cottone, personaggi di spicco nel territorio prediletto da Aglieri, accusati di aver avuto un ruolo nelle «minifaida» di Villabate, una catena di sangue andata avanti dalla fine del '94 all'inizio del '96. Uno stillicidio di morti che nasconde il vero (modo»: lo scontro fra «Pittimi» e Leoluca Bagarella. Ecco il quadro offerto dal collaboratore Salvatore Giuseppe Barbagallo: «Dopo l'arresto di Riina, il ruolo di vertice all'interno di Cosa nostra è stato assunto da Leoluca Bagarella, in perfetto accordo - inizialmente - con Bernardo Provenzano e con Brusca Giovanni. Attorno a questo nucleo si sono trovati pur sempre Pietro Agheri, Antonino Giuffrè e Mariano Tullio Troia... In particolare esisteva una sorta di patto di ferro tra Bagarella e Brusca, mentre il Provenzano, per la sua avanzata età, è rimasto più una figura carismatica... L'Aglieri invece ha assunto un fortissimo potere economico avendo mantenuto rapporti esclusivi con i trafficanti di cocaina colombiani per tramite della piazza di Milano...». Siamo nel mese di marzo 1995 e Barbagallo dipinge un Aglieri in crescita: «...sta cercando di appropriarsi del territorio di Giovanni Brusca... ha il vantaggio di conoscere personalmente tutti i vincenti (corleonesi) e tutti i perdenti, come per esempio lo stesso Carlo Greco...». Il collaboratore precisa, quindi, che «Pitrinu» è riuscito a coagulare attorno a sé un bel numero di «picciotti» della mafia palermitana che utilizza spregiudicatamente, come nel caso della «faida di Villabate», per tentare di indebolire l'esercito di Bagarella. Un gruppo che tutti, da Villabate a Caccamo, chiamano «I magnifici sette». Che fa «Pitrinu»? Assume un atteggiamento distaccato, quando ilgruppo dirigente si avventura nella scommessa stragista. Ancora Barbagallo spiega che «qualcosa nel vertice di Cosa nostra si stava incrinando». Come mai? «Quando nel 1993 cominciano a verificarsi le stragi nel Centro-Nord d'Italia, all'interno del mandamento c'era parecchio malumore. E quando si capì che era tutto opera dei "corleonesi" il malumore aumentò notevolmente». Agheri si barcamena, ma sotto sotto è molto attento solo ai suoi affari: pieno di soldi, comincia a reclutare amici ed alleati. Anche politici. Dice Barbagallo di un intervento in favore di «Forza Italia» nella campagna elettorale amministrativa a Villabate, intervento avvenuto «col consenso del "Signurinu"». Si fa addirittura una riunione nella quale si decide di «tagliare i rami secchi», nel senso di uccidere per esempio Francesco Montalto, figlio del boss Salvatore. In quella occasione nasce l'«asse moderato» Aglieri-Provenzano, in contrapposizione con gli irriducibili Bagarella-Brusca. Racconta Barbagallo: «Ormai noi dovevamo fare riferimento in prima battuta ad Agheri e sopra di lui a Provenzano chiamato "tabula rasa"». Ed ecco la faida di Villabate, una storia intricatissima e di difficile comprensione per via dei continui depistaggi messi in atto da entrambe le fazioni. E' Bagarella che comanda il gioco, mentre Aglieri sta defilato e fa scendere in prima linea i Di Peri, leader del luogo. E' il «corleonese» Leoluca, detto «signor Franco» che per ingannare Aglieri e tutti i suoi alleati uccide e poi cerca di addossare le responsabilità sui «palermitani». L'atto di accusa della procura di Palermo, che ricostruisce nei dettagli tutta la vicenda, annovera tra gh «omicidi gratuiti» quello di Domingo Buscetta, nipote di don Masino. Il giovane sarebbe stato assassinato soltanto per dar corpo ad una inesistente vendetta trasversale. In effetti l'omicidio serviva a mascherare l'assassinio di Marcello Grado, figlio di un altro dei «perdenti» amico di Buscetta, eliminato da Bagarella per aver preso parte ad un complotto per rapire Giovanni, il figlio di don Totò Riina. E' mcredibile l'abilità dei «corleonesi» nei depistaggi. Barbagallo la chiama abilità «nell'armare tragedie». Uno dei capolavori del settore - diffusamente spiegato dai magistrati - risale al 1989. Ricordate l'estate del «Corvo»? Una lettera anonima addossava la responsabilità di ì una serie di omicidi avvenuti nel triangolo Bagheria-Casteldaccia-San Nicola all'operato della mafia perdente, i cosiddetti «scappati», addirittura guidati dal pentito Salvatore Contorno tornato dagli Stati Uniti con una ' sorta di licenza di uccidere con- I cessa dallo Stato italiano. Vitti- ! me designate di quella strategia dell'infamia, Giovanni Falcone e Gianni De Gennaro. Il giudice Alberto Di Pisa, poi, fu accusato di essere l'autore di quella lettera. Negò, non venne creduto, fu processato, condannato in primo grado e assolto in appello con tante scuse. Oggi, alla luce di quanto si sa, i magistrati non hanno dubbi: quegli omicidi furono commessi per ordme di Totò Rima. Fu lui, poi, a far «passare la voce» che erano «opera degli "scappati"». «Risulta evidente - scrivono i magistrati - come la nota lettera del "Corvo", che abilmente sfruttava l'accertata presenza di Contorno nella zona in questione, si inserisca perfettamente all'interno di quella strategia tutta corleonese di occultamento della verità». Come a dire che il «Corvo» era proprio lui, Totò Riina. Francesco La Licata La faida di Villabate segnò il divorzio tra Bagarella-Brusca e Aglieri-Provenzano In quell'estate i corleonesi uccisero per incolpare il pentito Contorno