HAMLET

I L F IL M I L F IL M DELLA SETTIMANA HAMLET «Hamlet» di Kenneth Branagh è in cartellone al cinema Ambrosio HAMLET è un film sontuoso, ma non è questo il problema, direbbe il principe danese. Il quale, nella versione di Kenneth Branagh, sembra lord Byron: un progresso rispetto al «Riccardo in» che sembrava Hitler e agli ultimi «Romeo e Giulietta» che sembravano «Miami Vice»: di questo passo un regista potrebbe avere l'idea di ambientare Shakespeare all'epoca prevista da Shakespeare: ma neppure questo è il problema. Il problema è la durata. Tre ore cinquantaquattro minuti ventisette secondi. Cronometrati da un nevrotico che ci ha passato l'informazione. Ora, per noi figli degli spot televisivi, 3h 54'27" sono un tempo immemorabile. Un tempo nel quale riusciamo a: 1. sbirciare la tv mentre leggiamo il giornale, mettendo da parte gli articoli più lunghi di sessanta righe con l'illusoria promessa che h leggeremo poi; 2. sentire al telefono cinque amici che non vediamo da tempo e non vedremo ancora per molto, scorrendo intanto una videocassetta e il telecomando del compact disc per assaggiare solo gli «attacchi» delle canzoni di un nuovo album; 3. divorarci tre pagine del romanzo - rigorosamente a capitoli brevi - che stiamo leggendo da un mese e di cui dimentichiamo la trama un giorno per l'altro. Questa è la nostra vita culturale, signor Hamlet. E Lei pretende di tenerci inchiodati per 3h 54'27" a una sedia, al buio e per giunta col telefonino staccato? A vederla rodersi nei Suoi dubbi c'erano persone sofferenti, che ai titoli di coda sono esplose verso l'uscita come centometristi. La prossima volta, please, infili in mezzo qualche spot: per darci almeno il tempo di ascoltare la segreteria telefonica del cellulare. Massimo Gramellini L'IRONIA RADICALE DI GARY GOLDBERG Per un centro che ha sempre riservato grande attenzione alle ricerche più estreme, l'underground americano resta una fonte inesauribile di scoperte. E non è quindi un caso che l'associazione Pervisione abbia scelto «El Paso» per presentare l'opera di Gary Goldberg, da sempre attento esegeta delle espressioni più duramente creative ed eversive della produzione sotterranea americana. Goldberg ha realizzato negli ultimi cinque anni una serie di cortometraggi ironici e radicali che mettono in scena due mostri sacri della off Hollywood: Taylor Mead, che negli Anni Sessanta era stato il volto di molti film di Andy Warhol e di Gregory Markopoulos, e Bill Rice, il cui nome è legato alla new wave underground a cavallo tra i 70 e gli 80, quando si scoprivano anche qui da noi le trasgressioni firmate da Scott e Beth B. Il programma presentato a ve- TaylorMead e Bill Rice in una scena del film «Plates» di Goldberg In alto, scena di «Evita»

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