IL CONSIGLIO

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Chiara Simonetti C9 E' una ragazza allegra e leggera, che indossa abiti sgargianti e un cappello di piume nero. Abita in una zona di Londra poverissima dove si parla cockney e, nonostante abbia una madre alcolizzata e piena di reumatismi, non perde il b.:. jmore I-li naturalmente un corneggiate, e, .na pei' onestà di sentimenti rifiuta un affetto sicuro per imbarcarsi in una storia d'onore con un padre di famiglia, molto più vecchio di lei. Vanno a teatro insieme e le cose precipitano. Abitano nella stessa strada e devono fare attenzione a non venire scoperti. L'idillio però non dura. «Liza di Lambeth» il primo libro di Somerset Maugham (pubblicato insieme a «Il destino di una donna sola» dai Super Classici Rizzoli, L. 12.000) è una tragedia lieve, appena soffocante, nascosta^ com'è dai dialoghi serrati e cicalanti dei vicini di casa di Liza, annegata nei pintoni di birra che scorre a fiumi, allontanata da una scampagnata all'aria aperta. Majl vero pregio risiede nella lucida capacità di descrivere cinicamente dubbi, speranze, rimorsi e sbandamenti umani senza il più piccolo riferimento a quella scienza che ha ribaltato, illuminato, scosso e messo in crisi tutto il nostro secolo: la psicoanalisi. Monti, era un sincero antifascista e fu poi condannato con me dal Tribunale speciale nel 1936; egli non disse mai nelle sue lezioni la parola "libertà" ma ci leggeva Dante, Boccaccio e Ariosto in modo da farci capire che l'arte è un valore che non può essere contaminato dalle contingenze economiche o politiche». Monti dirigeva anche la biblioteca della scuola e scelse Leone, del qua- rg, la cui vita è riginaria di Bad dra, traduttrice scrittori italiani. mazione e della one, nel brano agione romana: a privata e vita una fedeltà su vere e io lo so ma di morire il ta, non i libri». Monti, era un sincero antifascista e fu poi condannato con me dal Tribunale speciale nel 1936; egli non disse mai nelle sue lezioni la parola "libertà" ma ci leggeva Dante, Boccaccio e Ariosto in modo da farci capire che l'arte è un valore che non può essere contaminato dalle contingenze economiche o politiche». Monti dirigeva anche la biblioteca della scuola e scelse Leone, del qua-VEVA appena compiuto diciassette anni. Uno dei suoi frateli le disse: «Dammi il tuo racconto, lo faccio leggere a Benedetto Croce che sta di là in salotto». Natalia glielo diede. Sapeva che era una battuta ironica, e aspettò un poco. Infine, quando andò a sentire il giudizio, naturalmente di là non trovò il filosofo, ma un amico di suo fratello, «una testa beffarda e misteriosa»: Leone Ginzburg. «Il tuo racconto mi piace - disse "il russo", del quale Natalia sapeva soltanto che era molto amico di Mario -, lo manderò a Solatia». Leone, che aveva sette anni più di Natalia, cominciò a venire a trovarla spesso, e passavano interi pomeriggi carnminando per i quartieri industriali e operai della periferia. Quando la rivista letteraria rifiutò di pubblicare il racconto con la motivazione che l'autrice era tanto giovane e non si poteva sapere se avrebbe continuato a scrivere, Leone inviò un altro racconto di Natalia, 1 bambini, che venne pubblicato. Per settimane, per mesi interi, i due giovani trascorrono insieme le giornate, anche se da principio Natalia dubita di aver incontrato «la persona giusta». Non è come le altre volte che si era innamorata. «La terra, il cielo non sono mutati... niente brucia intorno a noi». Ma col passare del tempo, non può fare a meno di riconoscere l'eccezionalità e la profondità del loro rapporto: «Ci rendiamo conto che mai abbiamo avuto un rapporto simile a questo con nessun essere umano; tutti gli esseri umani ci apparivano dopo un poco così inoffensivi, così semplici e piccoli; questa persona, mentre cammina accanto a noi col suo passo diverso dal nostro, col suo severo profilo, possiede una infinita facoltà di farci tutto il bene e tutto il male. Eppure noi siamo infinitamente tranquilli». Leone Ginzburg, dinanzi al quale la fronte di Natalia, per tanto tempo «aggrottata e torva», tutt'a un tratto si distese, era nato a Odessa il 9 aprile 1909. La sua famiglia era di origine ebraica. Fin da piccolo trascorreva l'estate a Viareggio con la madre, il fratello e la sorella. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, di fronte al pericolo del viaggio di ritorno in Ucraina, Vera Ginzburg lasciò l'ultimogenito a Maria Segre, la governante, che lo accudì come una seconda madre. Leone frequentò le elementari a Viareggio e ben presto imparò a parlare l'italiano come il russo. Alla fine del 1919 i Ginzburg lasciarono la Russia e si trasferirono a Torino, dove Leone frequentò il hceo Gioberti. Nel marzo del 1921 la famiglia andò a stare a Berlino, sede di lavoro del padre, Teodoro Ginzburg, dove Leone frequentò per due anni la scuola russa. I mesi estivi li trascorreva come sempre a Viareggio dalla «zia Maria». Nell'autunno del 1923 la famiglia si trasferì definitivamente a Torino, senza il padre. Leone fu mandato al leggendario hceo Massimo d'Azeglio, dove conobbe, tra gli altri, i fratelli di Natalia, Cesare Pavese, Giulio Einaudi, Norberto Bobbio e Vittorio Foa. «Quel liceo» - così Foa era una buona scuola per la futura classe dirigente borghese... Il più noto dei nostri insegnanti, Augusto le riconobbe subito le straordinarie capacità intellettuali, come suo assistente. (...). Dopo la maturità, Leone si iscrisse a Legge, passando però ben presto a Lettere. Il gruppo di amici del Massimo d'Azeglio si incontrava una volta alla settimana al Caffè Rattazzi con il professor Monti per discutere di politica, attualità, letteratura e musica. Quando Leone raggiunse la maggiore età, chiese la cittadinanza italiana. Finché non l'ottenne, rinunciò a qualunque forma di militanza politica, anche se fin dall'inizio era stato un convinto antifascista. (...). Dopo essersi laureato con una tesi su Maupassant, nella primavera del 1932 trascorse alcuni mesi a Parigi con una borsa di studio. Fu in questa città che incontrò nuovamente Benedetto Croce e prese contatto con gli antifascisti italiani che vivevano in esilio in Francia. (...). Tornato a Torino, nella stessa estate fondò la cellula torinese di Giustizia e Libertà nella quale poco dopo entrarono anche Mario, fratello di Natalia, Vittorio Foa e Sion Segre. «Cos'ha da fare Mario con quel Ginzburg?», domandò Giuseppe Levi a sua moglie quando un giorno incontrò il figlio e Ginzburg sul Corso. «Cosa diavolo si diranno?». In famiglia nessuno sospettava che Mario partecipasse alla clandestinità antifascista. «Mio padre non pensava che ancora esistessero, in Italia, dei cospiratori. Pensava di essere uno dei pochi antifascisti rimasti in Italia.» «E' uno coltissimo, intelligentissimo - rispose la madre -, traduce dal russo e fa delle bellissime traduzioni». Lei aveva incominciato a studiare il russo e prendeva lezioni dalla sorella di Ginzburg insieme alla sua amica Frances. «Però è molto brutto - obiettò il padre -. Si sa, gli ebrei son tutti brutti». «E tu? - disse la madre -, tu non sei ebreo?». «Difatti anch'io son brutto», disse il padre. Alla fine del 1932 Leone Ginzburg ottenne la libera docenza in letteratura russa all'Università di Torino. Ma nel 1934 la perse nuovamente perché si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al partito fascista. «Illustre professore - scriveva Leone l'8 gennaio 1934 al decano della facoltà -, ho rinunciato da un certo tempo, come ella sa bene, ^ percorrere la carriera universitaria, e desidero che al mio insegnamento non siano poste condizioni se non tecniche o scientifiche. Non intendo perciò prestare il giuramento sopra accennato». Maja Pflug avevo mai preso una laurea, non sapevo Lingue straniere, a parte un po' di francese, e non sapevo scrivere a macchina. Nella mia vita, salvo allevare i miei propri bambini, fare faccende domestiche con estrema lentezza e inettitudine, e scrivere romanzi, non avevo mai fatto niente. Inoltre ero sempre stata molto prigra. La mia pigrizia consisteva nel perdere un tempo infinito oziando e fantasticando». Terrorizzata all'idea che Muscetta potesse scoprire i suoi difetti, Natalia s.i gettò con tale fo • ga nella revisione della traduzione assegnatale, che in tre giorni l'aveva finita. La assunsero. Continuò a lavorare «con furia e vertigine», sempre in ammirazione dei colleghi, che le sembravano tanto più efficienti. Un giorno, come nei film americani, arrivò a Roma Giulio Einaudi, l'amico diventato padrone. La abbracciò e arrossì, «perché era timido e sembrava contento e non troppo stupito che lavorassi lì». Poco dopo Natalia cominciò a tradurre La strada di Swann. Scriveva a mano, su grandi fogli, con una calligrafia infantile, rotonda, sempre sul punto di deragliare. In quei caratteri cuneiformi c'era tutta la determinazione della ex-ragazza passionale e severa che amava muoversi nella penombra, ma si dirigeva con la sicurezza dell'istinto verso la luce che baluginava in fondo al tunnel, e ci arrivava con i suoi piccoli passi di «millepiedi», come l'ha definita Cesare Garboli, senza mai per- Nessunoha saputo la felicitàdella tana Nessuno come lei ha saputo raccontale la felicità perduta della tana domestica come lei raccontale perduta domestica dere l'orientamento. Poteva avere, per i manoscritti che le piacevano, un innamoramento totale e intransigente: non mollava per anni, se necessario, finché non diventavano Libro. Ultimogenita della grande e rumorosa famiglia del professor Levi, avrebbe potuto restare stritolata da quel clan così ingombrante. Della sua marginalità apparente, delle sue presunte ^sufficienze, imparò a farsi un'arma micidiale! Negli occhi le rimase la terribile serietà di chi, da una posizione defilata, tutto osserva e registra, tutto capisce., Nessuno come lei ha saputo raccontare la fisicità, la felicità perduta della «tana» domestica; nessuno come lei ha registrato la crisi e l'afasia delle famiglie d'oggi. Dichiarava preLuninarmente la sua incapacità a capire, a orizzontarsi in materie troppo complesse. Ma ecco che prendeva a dipanare il filo dei ricordi e dell'argomentazione con una tale stringente concretezza che l'mdecifrabile finiva per assumere una chiarezza cristallina. Perché aveva il formidabile coraggio civile, Natalia, di chiamare le cose con il loro nome. La forza del suo candore, la sua libertà intellettuale, il suo saper prendere posizione in un mondo senza padri, persino la sua caparbietà nascevano da quella speciale cognizione del dolore che solo le donne possiedono sino in fondo. Ernesto Ferrerò