Dublino i nuovi yuppy d'Europa di Fabio Galvano

Domani si vota in un ex Paese povero che sta bruciando le tappe del boom economico Domani si vota in un ex Paese povero che sta bruciando le tappe del boom economico Dublino, i nuovi yuppy d'Europa L Irlanda, un 'isola senza recessione LA TIGRE DI SMERALDO DUBLINO DAL NOSTRO INVIATO Davanti al Lillie's Bordello, in Grafton Street. Nonostante il suggestivo nome, si tratta soltanto di un elegante locale notturno: è tarda notte, ma il viavai è continuo e ha odore di denaro. Denaro giovane su spalle giovani, sventagliato come se fosse una laurea, forse costato poca fatica. E' zona pedonale, non ci sono le Porsche e gli altri esotici cavalli che negli Anni Ottanta erano stati distintivo degli yuppies di Londra. Ma quei purosangue non sono neppure nelle vie adiacenti, forse perché assicurarli - qui - costerebbe anche dodici milioni; tuttavia Mark Hennessy - analista politico dell' «Examiner» - dice che negli ultimi due anni «è aumentato nelle strade il tasso di cabriolet». Eppure queste figure nella notte, che si portano sulle spalle gli Armani e i Versace con la stessa disinvoltura con cui i loro padri s'infilavano negli spessi e infeltriti maglioni bianchi di lana grezza, vagano nella città non alla ricerca di se stessi come il Leopold Bloom dell'«Ulisse», anche se questa è Dublino, ma piuttosto a caccia di un altro party, di un ristorante che come loro tiri le ore lunghe. Sono, in barba a una presunta «psiche irlandese contraria all'ostentazione», l'indice di quello che passa come «miracolo irlandese». La tigre con gli occhi di smeraldo, dicono i giornali; ma va stretto, all'Irlanda, il paragone con le dinamiche e aggressive economie asiatiche. Il boom economico, che sta trasformando quest'isola da cenerentola in fenomeno europeo, dà sì vita a yuppies che sono in Inghilterra di thatcheriana memoria, abbelhsce i negozi eleganti attorno al St. Stephen's Green, dà una spinta edilizia che ha già trasformato e continua a trasformare il centro della città, ma in qualche strano modo non sembra in grado d'intaccare l'anima di un'Irlanda che ha nel sangue la grande carestia del secolo scorso e che affonda le sue radici nella miseria contadina. E' l'Irlanda che - se i sondaggi l'azzeccano come già hanno fatto nell'ultimo mese per Blair e per Jospin - non si lascia accecare dai lustrini del benessere. E' quello etichette a parte - che promette Bertie Ahern, leader del Fianna Fail (si pronuncia (dina foil» e vuol dire «soldati del destino») in coalizione con il Pd (democratici progressisti) della pugnace Mary Harney, destinata probabilmente a diventare la prima donna Tanaiste - vicepremier - nella storia dell'Irlanda. «Ridurre le tasse», mi spiega Ahern fra i grandi manifesti e gli slogan («Un leader giovane per un Paese giovane», «Leadership attraverso la comprensione») del suo quartier generale elettorale, proprio di fronte a quel bastione dell'establishment irlandese che è lo Shelbourne Hotel: «Privatizzare, tagliare le spese e il debito pubblico, ridurre la delinquenza». Ma con due aggiunte di rilievo: «Portare a conclusione il processo di pace nelle province del Nord», dice, «e svolgere un ruolo attivo nell'integrazione europea». Non c è il rischio, forse, di fare inceppare la macchina politica - il governo di John Bruton, la coalizione «arcobaleno» del suo Fine Gael con il Labour di Dick Spring e la Sinistra Democratica di Proinsias de Rossa - che non è stata la sola a portare l'attuale benessere ma che lo sta gestendo? «Non credo», risponde. E non lo credono neppure gli elettori, affascinati da questo leader di 45 anni irruente e spontaneo, con le strette di mano vigorose, che non ha esitato a fare entrare Sylvester Stallone nella sua campagna: i sondaggi dicono che Bruton e Spring hanno ridotto il distacco, ma che Ahern e la Harney hanno ancora almeno quattro punti di vantaggio; e l'allibratore Paddie Power concorda, dando lo sfidante alla pari e Bruton 9 a 4. Neppure fra i club di Leeson Street e negli eleganti ristoranti di Baggot Street, e tantomeno nella lunga teoria di rumorose discoteche del Tempie Bar che è stato definito «la risposta di Dublino al Greenwich Village» o fra gli yuppies del ritorante Eden - uno dei più alla moda - o dell'elegante Thornton's, in Portobello Road, e neppure nell'assordante musica degli U2 (gloria locale) che allieta i più giovani al Pod (Place of Dance) c'è molta compassione per Bruton. Ma il boom c'è; e forse è anche merito suo. Nel 1987 il Pil pro-capite era, in Irlanda, il 63% di quello britannico: meno della Spagna e poco più di Grecia e Portogallo. Ma la «tigre» irlandese è l'unico Paese europeo a non avere avuto recessione e l'anno scorso Dublino ha raggiunto e superato Londra, avvicinandosi alla media europea. Nel 1995 la crescita economica - ecco le cifre del «miracolo» - è stata del 10%, l'anno scorso del 7%, quest'anno risulterà di almeno il 6%, contro Paesi europei che aspirano al 2%. Un'economia «surriscaldata»? «Neppure per sogno», replica l'ex primo ministro Garret FitzGerald: «L'inflazione è appena dell'1,5%». L'indebitamento è sceso dal 120% del Pil a meno dell'80%. I parametri di Maastricht, cruccio per la lira in vista del mercato unico, non sono un problema per Dublino. La «piccola» Irlanda (3,6 milioni di abitanti, meno di Milano e hinterland) ha tutte le carte in regola e spinge, mentre da Bonn e Parigi si levano nuovi dubbi. Spinge anche perché sa che l'Europa è stata la sua fortuna: non solo per i finanziamenti e gli aiuti avuti da Bruxelles, ma soprattutto per i mercati che le si sono aperti. L'Irlanda, se si tiene anche conto degli investimenti americani nella «madrepatria» di 40 milioni d'americani, è la prova concreta dei benefici che può avere la globalizzazione del mercato. La vecchia gentile Irlanda vittima del proprio successo? Non proprio. La tigre è visibile nella capitale, meno nelle altre città, invisibile invece nelle campagne. Vero che nella capitale vive quasi un terzo dell'intera popolazione, ma vero anche che le sacche di miseria ottocentesca del contado restano. E sono quelle, dietro i lustrini, nel mirino dei politici; che le hanno battute in lungo e in largo, in scene che sembrano prese da quel capolavoro di John Ford che fu «Un uomo tranquillo». Con la folla che a Ballinasloe ha regalato un paio di scarpe a Bruton, costretto a Galway a fare l'elemosina a un musicista ambulante. In clima di rivalità paesana, come quando il deputato Enda Kenny, del Fine Gael, ha detto a Castlebar che «i Kenny erano nel Dail (il Parlamento; ndr) quando i Flynn facevano ancora i cappellai in Main Street». A Tuam, a Ennis, a Limerick la sceneggiata non è stata molto diversa. L'Irlanda più profonda, dietro lo smalto del «miracolo». Ma soprattutto ci si domanda se la tigre vivrà a lungo o se morirà con i suoi yuppies: se resisterà la piccola frazione di Galway ribattezzata Gollywood da quando vi ambientano una telenovela in gaelico che a sua volta ha trascinato il cinema internazionale; se l'invasione (e gli investimenti) dall'estero saranno bloccati da Aine Ni Chonaill, insegnante di lingue che si presenta candidata anti-immigrazione; se le Ferrari Testarossa a noleggio avranno vita breve; se si ripeteranno le «settimane siciliane» che con il celebre chef Antonio Majorana, venuto dalle cucine di Montecitorio, allietano in questi giorni i palati più esigenti nell'elegante ristorante di un hotel dublinese. Il successo irlandese poggia su formule conservatrici (tasse alte, welfare generoso, un'ambiziosa strategia industriale) e liberali (apertura agli investimenti, deficit pubblico ridottissimo, mercato del lavoro estremamente flessibile). Un mix che non rispetta logiche politiche e tantomeno di governi che non rispecchiano in Irlanda il tradizionale concetto di destra e sinistra ma semmai eredità storiche legate all'indipendenza da Londra. E tutto questo non sarà il voto di venerdì a cambiare. Fabio Galvano, Ma nelle campagne restano le sacche di miseria ottocentesca E sono nel mirino dei politici Un'immagine di Dublino