Il figlio di Castellari «Non è stato omicidio» di Gio. Ma.
Boccassini sceglie il Pool Perugia, Bonifaci chiede la scarcerazione Il figlio di Castellari «Non è stato omicidio» E la Procura chiede300 miliardi di risarcimento agli ex vertici Eni ROMA. «L'inchiesta per omicidio non la capisco proprio. A meno che non sia un modo per coprire responsabilità quanto meno morali degli stessi giudici che oggi sostengono che mio padre è stato ucciso, mentre s'è tolto la vita perché lo volevano arrestare ingiustamente. A questo punto il mio sospetto è questo». A Giovanni Castellari, figlio di Sergio, l'ex manager di Stato trovato morto quattro anni fa nella campagna romana, non è piaciuta la mossa della procura di Roma di trasformare quell'inchiesta in un procedimento per omicidio «a carico di ignoti». Il procuratore aggiunto Italo Ormanni spiega che si tratta di un fatto procedurale, «in un caso del genere è meglio che ci sia la valutazione di un giudice "terzo", cioè il gip, e tecnicamente questo si può fare solo ipotizzando il reato di omicidio». Con ogni probabilità, la stessa procura chiederà l'archiviazione, ma quella vicenda ora è al vaglio anche dei magistrati di Perugia., Giovanni Castellari ne è contento: «Mi sembrano gli unici in grado di dare un giudizio sereno, non hanno speculazioni da fare o magagne da coprire. Del resto Savia lavorava a Roma, che credibilità possono avere conclusioni tratte dal suo ex ufficio, dove qualcuno è ancora al posto di 4 anni fa? A Roma si sentono in imbarazzo, potrebbe essere pericoloso scoprire qualcosa. Mio padre s'è ammazzato per motivi precisi, chiari fin dall'inizio viste le lettere lasciate: quelli cercano le pagliuzze negli occhi degli altri invece di guardare la trave nei loro». Fiducia nei giudici di Perugia, dunque, che ieri hanno interrogato per quasi tre ore nel carcere di Spoleto il terzo arrestato nel blitz di venerdì, il costruttore romano Domenico Bonifaci, quello che avrebbe dovuto beneficiare dell'«aggiustamento» del processo Enimont una volta che il fascicolo fosse rimasto a Roma. Ma Bonifaci nega di aver tramato per «aggiustare» quel processo; la controprova sarebbe che una volta incappato in Mani pulite, collaborò con Di Pietro, arrivando al patteggiamento. E la gestione del conto 1079, dove gli inquirenti credono di aver trovato un pezzo della maxi-tangente Enimont? Su quello dovete chiedere a Melpignano, il conto era suo, avrebbe risposto Bonifaci di cui i suoi avvocati chiederanno la scarcerazione al tribunale della libertà. Il commercialista Sergio Melpignano risponderà sabato ai giudici, ha chiesto tempo per riflettere. Sta riflettendo - nella cella dove c'è una luce accesa 24 ore su 24 ed è guardato a vista, nel timore che compia gesti inconsulti - il giudice Savia, accusato di aver provato in tutti i modi a trattenere l'inchiesta su Enimont a Roma anche tramite l'arresto di Castellari. Savia (che ha comunicato al suo avvocato Ugo Longo l'intenzione di lasciare la magistratura dopo il secondo arresto) nega di essersi adoperato per quell'«aggiustamento»: è vero che chiese l'arresto di Castellari, ma la decisione fu di tutto l'ufficio. E comunque l'indagine sul manager era separata dal procedimento Enimont, non avrebbe potuto in alcun modo «attrarre» l'altro procedimento. «Tanto è vero - spiega - che l'inchiesta su Castellari rimase a Roma, mentre Enimont andò a Milano». A Roma sono proseguite le perquisizioni da parte dei carabinieri del Ros nelle sedi degli enti coinvolti a suo tempo nello scandalo dei «palazzi d'oro» (un altro processo da pilotare), ma la tangente Enimont torna d'attualità davanti ad altri giudici: la procura regionale del Lazio ha chiesto alla Corte dei conti che ben 300 miliardi di lire vengano risarciti dagli ex vertici dell'Eni, della Consob e dagli ex ministri per i danni provocati all'erario. [gio. Ma.]
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