compleanno e fine di Fabio Galvano

compleanno e fine compleanno e fine Come colonizzatori - peraltro il concetto era ancora fumoso - gli inglesi furono fra gli ultimi a muoversi. Quando il Matthew partì da Bristol Cristoforo Colombo aveva già proclamato spagnole le Indie Occidentali e le caravelle portoghesi si erano spinte lungo le coste africane quasi raggiungendo il Capo. Anni dopo, quando gli inglesi avanzarono le loro pretese sulla Virginia, i francesi avevano già conquistato il Canada, gli olandesi avevano raggiunto il Giappone, i portoghesi avevano fondato colonie in Brasile e stabilito centri commerciali in India e in Cina, gli spagnoli addirittura avevano in mano gli «imperi dell'oro», in Messico e in Perù. Sempre una rincorsa, ma mai come in quel lontano 1497. Già 13 anni prima Colombo aveva mandato suo fratello Bartolomeo a Londra per chiedere l'appoggio del sovrano inglese. Ma la storia è fatta anche di imprevisti: catturato dai pirati, Bartolomeo approdò solo dopo alcuni anni in Inghilterra; e quando si presentò a corte, Enrico VII lo ascoltò ma non gli promise nulla. Furono «i re cattolici» di Spagna, Isabella e Ferdinando, a raccogliere la sfida che avrebbe cambiato la storia. Ma Enrico VII non era uomo da commettere due volte lo stesso errore. Fu così che Caboto partì alla ventura, nella primavera del 1497, con cinque imbarcazioni e con il vessillo del re. Un viaggio tremendo, su una rotta settentrionale e quindi con i venti contrari che lo portò a incrociare «mostruose montagne di ghiaccio che nuotavano nel mare» e infine ad approdare in quelle che anch'egli credette fossero le Indie Orientali: Terranova. Caboto fu premiato dal re, che gli riconobbe una generosa pensione di 20 sterline l'anno; ma l'impresa ebbe scarso seguito. Trascorse quasi un secolo - 1583 - prima che sotto la spinta di un'Elisabetta aperta ai nuovi mondi l'Inghilterra stabilisse nella stessa Terranova il suo primo insediamento. Ma ci vollero altri anni e un altro re - Giacomo I perché gli inglesi fondassero nel 1607 Jamestown, in Virginia: il nucleo di quella che sarebbe stata la colonizzazione di Londra in America ma anche l'avvio dell'espansione che nei due secoli successivi avrebbe portato l'Inghilterra in ogni parte del pianeta, foggiando non solo la storia di queste isole ma anche quella di mezzo mondo. Oggi gli storici parlano di un primo e di un secondo Impero britannico. Perché il primo, di fatto, venne a mancare della sua perla più preziosa - le colonie americane, appunto - nel 1781, a conclusione della guerra di indipendenza. Ma ormai Londra ragionava su scala mondiale e quando - superati gli errori e le debolezze di Giorgio IH pensò nuovamente all'espansione scoprì di avere tutte le carte in re¬ gola: gli strumenti politici e militari (compresa una potente Marina), la capacità organizzativa e amministrativa, insomma quello che oggi si direbbe il know how. L'Impero prosperò, si espanse; in Africa, in Asia, in America (già il Trattato di Utrecht del 1713 aveva dato parte dell'odierno Canada). La spinta massima fu sotto la regina Vittoria, ma proseguì poi all'inizio di questo secolo. «Trasformandosi di continuo», precisa il professor Keegan. Cominciata come impresa commerciale che talora si tradusse in spietato sfruttamento (la razzia di schiavi nelle Indie Occidentali, per esempio), la colonizzazione britannica si trasformò nel XVIII secolo in Impero stanziale, polmone per una madrepatria asfittica e impoverita: dall'Irlanda, dalla Scozia, dalle campagne inglesi e dai bassifondi di Londra schiere di coloni si riversarono nelle nuove terre americane, nel Sud Africa, nell'Australia che servì anche come bagno penale e in cui Charles Dickens mandò Magwitch e il signor Micawber oltre che - nella vita reale due figli. Ma dalla metà del XIX secolo era ormai subentrato un altro concetto della missione imperiale: il dominio come strumento per educare, assistere e rendere giustizia fra sudditi fedeli della Corona. La colonia non più come bene da sfruttare (o soltanto da sfruttare) ma come parte di una comune ricchezza, concetto poi rispolverato e tradotto nell'era dell'indipendenza in quello che è oggi il Commonwealth. Dovunque: dove la colonia era stata conquistata con le armi (in Africa, per esempio), dove (Australia) l'Impero si era allargato con l'esplorazione, infine dove (l'India, rimasta in mano alla East India Company fino all'ammutinamento del 1857) lo Stato era su- Un immagine di Caboto. A sinistra il re Enrico VII, che come ricompensa per la sua impresa gli assegnò una pensione di 20 sterline l'anno bentrato a forze più deboli. Un Impero potente, compatto, apparentemente inaffondabile. Su cinque continenti e sette mari sventolava la bandiera britannica: per giunta con una nuova etica del potere, che consisteva nel trasferirlo in modo costante e graduale dai colonizzatori ai colonizzati. Un cambiamento che spiega, forse, molte cose: il diffuso rapporto di civile convivenza internazionale, oggi, fra i padroni e i sudditi di ieri; il generoso contributo delle colonie alle due guerre mondiali, anche quando non erano direttamente coinvolte; persino il modo in cui l'indipendenza è stata sovente acquisita senza violenza, quasi come se fosse il naturale sviluppo della situazione. Eppure la fine dell'Impero ha colto tutti di sorpresa. Osserva il professor Keegan: «Non c'è bisogno di essere molto vecchi per ricordare l'Impero alla sua massima estensione. Un uomo che oggi abbia 60 anni riceveva come pocket money dai genitori, nel 1947, le grandi monete di rame da un penny con l'immagine di Gior¬ gio VI "imperatore dell'India". Ma era anche re di tutti i dominions, come si chiamavano allora Australia, Canada, Terranova, Sud Africa e Nuova Zelanda; e signore di Ceylon, della Birmania e di quella che oggi è la Malaysia, che allora comprendeva anche Singapore. In Africa i suoi funzionari coloniali amministravano Nigeria, Uganda, Kenya, Sierra Leone, Gambia, Swaziland e i territori oggi noti come Ghana, Malawi, Botswana, Tanzania, Lesotho e Zambia. Lo Zimbabwe era la colonia autonoma della Rhodesia del Sud. Le Indie Occidentali erano colonie, con quelli che sono oggi Guyana e Belize. Il Sudan era, nominalmente, un condominio anglo-egiziano, ma in realtà un territorio imperiale con la Somalia britannica. Oltre il Mar Rosso, Aden era un protettorato britannico. Quelli che sono oggi gli Stati del Golfo, da Oman a Kuwait, dipendevano dal viceré di Giorgio VI a New Delhi. La Palestina aveva un'amministrazione britannica. Cipro e Malta erano come oggi Gibilterra». Una carrellata che, vista in negativo, offre l'impietoso elenco di una grandeur scomparsa, di petali appassiti e poi caduti, di un fiore vizzo; di un Impero «perso ma tuttavia amato», come ha scritto il Daily Telegraph ricordando i cinque secoli della sua costruzione e i cinquant'anni della fine. Ora se ne va Hong Kong. Ma forse è giusto che Elisabetta, regina di quest'Inghilterra che vuole ricordare con orgoglio il suo ruolo imperiale («non importante come quello di Roma, ma Roma non era amata», sottolinea il professor Keegan), preferisca attendere a Bonavista la riproduzione del Matthew (uniche concessioni al XX secolo gli strumenti satellitari e un motore diesel di emergenza) piuttosto che partecipare alla struggente cerimonia di Hong Kong, con l'addio a oltre cinque milioni di sudditi. L'Impero e la sua civiltà restano come monumento; e le sue fondamenta sono anche cementate da John Cabot, genovese. Fabio Galvano