Maxi-tangente Enimont, altri 39 miliardi di Gio. Bia.

Maxi-tangente Enimont, altri 39 miliardi Maxi-tangente Enimont, altri 39 miliardi Erano nella disponibilità del commercialista arrestato ROMA. 139 miliardi trovati sul conto corrente «nella disponibilità» del commercialista Sergio Melpignano sono una parte della maxi-tangente Enimont. E' quanto sostiene la procura di Perugia, ma è possibile che ci siano altri conti nascosti e altre tangenti legate a quella vicenda: l'inchiesta sulla corruzione nel palazzo di giustizia romano che ha portato in carcere Melpignano, il giudice Orazio Savia e il costruttore Domenico Bonifaci, continua anche per scoprire questo particolare. Melpignano, a causa di quei soldi, è inquisito per ricettazione e riciclaggio. Il conto sospetto è il 1079 dell'agenzia di Roma della Banca Popolare di Spoleto, intestato alla suocera del commercialista. Stando all'impianto accusatorio il denaro «occultato» da Melpignano proveniva da Bonifaci, ed una parte gli accertamenti svolti finora dicono 1 miliardo e 310 milioni - è finita a Savia affinché si adoperasse per tenere il processo Enimont a Roma anziché trasferirlo a Milano. Nella richiesta d'arresto i pm Fausto Cardella, Silvia Della Monica e Michele Renzo spiegano che «la parte "romana" del processo Enimont appare costellata da anomalie che nel loro complesso appaiono funzionali ad un disegno di aggiustamento della vicenda processuale, nel senso di renderla tendenzialmente innocua per i protagonisti che ne avrebbero dovuto subire danno». Tra i beneficiari c'è Bonifaci, e tra gli «aggiustatori» c'è Savia. Secondo i pubblici rninisteri, è sospetto anche il modo in cui a Roma fu avviato il procedimento che doveva servire ad evitare l'inchiesta di Mani pulite. L'indagine svolta dai carabinieri del Ros avrebbe accertato che la denuncia iniziale fu depositata nel palazzo di giustizia romano il 18 dicenbre 1992 da un dipendente dello studio dell'avvocato Vittorio Virga. Sono gli stessi magistrati a sottolineare che Virga è l'avvocato che la mattina del 21 gennaio '95 si ritrovò al bar Tombini insieme ai giudici Squillante, Savia, Napolitano e Iannini quando saltò fuori la microspia dell'indagine milanese su Squillante. Una casualità, forse, ma comunque un elemento di riflessione per gli inquirenti i quali sottolineano come la stessa denuncia fosse «estremamente generica, senza alcuno spunto serio di indagine», al punto da ritenere «che non si voleva scatenare alcun putiferio giudiziario», ma solo mettere le basi per la competenza territoriale romana piuttuosto «malferma». Per puntellare quella competenza, Savia si sarebbe deciso a chiedere l'arresto di Sergio Castellari, il manager morto poco dopo; un'iniziativa che provocò «sbigottimento» nell'amministratore delegato dell'Eni Franco Bemabè. Proprio Bernabò, interrogato dai pm perugini, ha raccontato un particolare che conferma le speranze che i veri interessati all'«aggiustamento» del processo Enimont riponevano nella magistratura romana dell'epoca; fra questi c'era Gabriele Cagliari, l'ex presidente dell'Eni arrestato a Milano e suicidatosi in carcere. «Quando Cagliari seppe di essere stato indagato per l'Enimont - ha detto Bernabè - apparì sollevato nell'apprendere che la Procura che procedeva era quella di Roma. Fece un gesto con la mano come a dire "Va tutto bene, non c'è problema"». Gli interrogatori degli arrestati cominceranno lunedì. Ieri Savia ha incontrato nel carcere di Perugia il suo avvocato Ugo Longo. «Dice di non aver fatto indagini particolari su Enimont - riferisce il legale -, tutte le decisioni furono prese dal procuratore aggiunto Torri, anche se Savia spesso concordava con lui». Quanto ai soldi ricevuti da Bonifaci, l'avvocato riferisce che secondo il giudice arrestato «in questa somma sono compresi tutti gli acquisti fatti dalla società "Promontorio" che, sostiene Savia, per un certo periodo è stata di Melpignano». [gio. bia.]