« Palazzinaro? Embè? » di Filippo Ceccarelli
« Palazzinaro? Embè? » Da Craxi alla seconda Repubblica: la lunga storia di un abruzzese con la quinta elementare diventato editore « Palazzinaro? Embè? » BROMA ONIFACI, dunque... E vabbè, pazienza, doveva succedere, o almeno può sempre succedere quando il giro dei rapporti cambia troppo e quello dei quattrini, invece, è sempre lo stesso. E allora, molto semplicemente, si finisce «dentro». Senza drammi. E poi si esce, di nuovo senza drammi. Direbbe lui: «Embé?». E in quel suono sgraziato, forse neppure interrogativo, puoi sentire insieme l'orgoglio e la rozza vitalità del «palazzinaro». Questo che hanno beccato ieri, va detto subito, è un prototipo speciale, molto evoluto, così flessibile da apparire addirittura terminale. In fondo un «palazzinaro» talmente snob da rivendicare l'appellativo, con quel tanto di sprezzante che si tira dietro, rigettando l'incoloritissimo «costruttore». Comunque «immobiliarista», da un certo punto. Da quando, per farla breve, Bonifaci era nel cuore di Craxi e della Montedison, anche per gli affarucci più delicati, pur navigando da almeno un decennio nel mare magnum dell'andreottismo. Per poi - ah, la Seconda Repubblica - consolidare amichevoli contatti con Publio Fiori, di An; e infine (infine?) proporsi - accettatissimo: «una persona cortese e perbene» - come una specie di banca del pds, da poco assurto a compiti di governo. Quest'ultima frequentazione, con opportuna elargizione di tre miliardi «prestati» in modo del tutto «limpido e trasparente», a riprova di come e quanto il potere dei quattrini trascende quello di tutto il resto. Era pure diventato editore: del Tempo, acquistato per settanta miliardi e rotti da Caltagirone. Quindi Bonifaci s'installò a Piazza Colonna, non senza aver espresso la propria soddisfazione per aver finalmente «uno stabilimento» nel centro storico. Aveva stretto Km ■ .• rapporti con Luigino Rossi, il padrone del Gazzettino. Insieme, si disse, decisero di assumere come direttore Maurizio Belpietro. Questi è un ottimo giornalista, ma non è che avesse molto capito dove si trovava, letteralmente, a Palazzo Wedekind, quindi schiacciato tra Montecitorio e Palazzo Chigi. Morale, fece un Tempo terribile, attaccò tutti, anche Scalfaro, anche D'Alema. «E' un amico» gli disse allora l'editore. «Ma è dell'Ulivo» ribatté Belpietro. «Embè, siamo amici». «Non ho ancora capito spiegò il direttore, ormai licenziato, quando si rivenne a sapere dei tre miliardi - se quel giorno aveva già firmato l'assegno». Tanto più imbarazzante, per certi versi, l'arresto. Però, dopo tutto, già l'altra volta se l'era cavata bene. Accusato di aver materialmente raccolto i quattrini del maxi-steccone Enimont - tecnicamente: «la formazione della provvista» era riuscito a squagliarsela dal processone mollando lì, sull'unghia, un risarcimento re¬ cord di 54 miliardi già garantiti da fidejussione bancaria. Con tale legittima dazione aveva fatto, come si dice, la sua porca figura di personaggio dotato di terrificante liquidità. Anche a guardarselo in foto sul giornale in aula, pelato, braccia conserte con il microfono sotto il naso da uccello rapace, l'occhio un po' fisso, senza cravatta tipo detenuto, Bonifaci dava l'idea di quello che non si fa fregare. Nemmeno da Di Pietro, con il quale l'aneddotica di Mani Pulite tramanda di ameni scontri in dialetto. Il «palazzinaro» più progredito di Roma è infatti abruzzese e parla male l'italiano. Ha la quinta elementare, viene dal cantiere e di quell'epopea di calcinacci, palanche verniciate, foratini, berretti a carta di giornale e cani lupo alla catena porta impressi segni di una ricchezza troppo presto conquistata. Accomodamenti e brutalità hanno fruttato, pure nel caso di Bonifaci, una profusione di denaro che nemmeno si può immaginare, dovendosi addirittura ritenere i «palazzinari» - come ha scritto Sciascia in una sua invettiva quasi satirica - «dei buoni cittadini. Infatti se sommiamo le loro elargizioni credo che arriveremmo a un volume tale che potrebbe compensare tutte le imposte che non hanno pagato». In questo quadro di sciaguratissima contabilità s'imporrebbero tenere abitudini, seppur schifosette, che in ogni caso sanno tanto di rivincita, sogno di potere primordiale, corporeo. Bonifaci, perciò, succhia caramelle Ambrosoli fino alla metà, poi le sputa nel cestino. Oppure - come un personaggio di Longanesi, o Maccari - lascia che un bel paio di scarpe marron sporgano, lucidatissime, sotto la scrivania. Dietro, nello spazio buio e invisibile, i suoi piedi conoscono il fresco tepore della pantofola. Embè? Filippo Ceccarelli
Luoghi citati: Caltagirone, Roma
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