Voce di un mondo scomparso di Paolo Guzzanti

Usa, non si conoscono neppure le cause dell'infezione al cuore Voce di un mondo scomparsa Dal debutto disastroso al Vietnam SULLE TRACCE DI UN MITO ANEW YORK L Village lo ricordano in pochi. Pochi per modo di dire, s'intende. Si parla sempre di migliaia, ma nelle librerie di Downtown devono accompagnarti verso scaffali polverosi per trovare i suoi testi, «Tarantola», le antologie, gli spartiti. Eppure il ragazzo partì da qui nel '62, quando l'America era un'altra America, Alien Ginsberg uno scapigliato e Kerouac un matto che avrebbe rivoluzionato la letteratura mondiale truccando la lingua, offrendo come tutti quelli della beat generation un modo nuovo, rivoluzionario, traumatizzante, fantastico di dire, cantare, scrivere e vivere. Certo, per noi che siamo più o meno suoi coetanei la sua voce significa un mondo scomparso. Anche se vivo: vivo e sparito allo stesso tempo. La voce di Bob e quella di Joan Baez sono per tutti noi, prima di tutto il Vietnam. La grande tragedia americana che cambiò lo stile di vita di tutte le generazioni che seguirono, l'evento che portò la parola alla musica (questo fu prima di tutto la canzone di Bob: parola più e prima della musica, come in Francia con Brassens o Brel), che portò le lingue a trasformarsi, usi e costumi devastati, una rivoluzione che non ha cessato di produrre effetti, anche se quella rivoluzione oggi è lontana come è lontana la memoria di Woody Guthrie che tanto influenzò Bob. Una vecchia storiella newyorchese racconta di quel forestiero che chiese: Come si arriva alla Carnegie Hall? E il vecchio musicista rispose: con molto, molto esercizio, ragazzo. Quando Bob arrivò alla Carnegie Chapter Hall era il 4 novembre 1961. Fu un disastro: 53 spettatori in tutto, e per di più tutti amici del Village, arrivati da Saint Christopher, dai buchi dei bistrot intorno a Bleekers. Fu un disastro come vendite di biglietti, ma il colpo arrivò subito a segno sulle menti intelligenti e infatti Robert Shelton scrisse pochi giorni dopo sul «New York Times» che «un nuovo interprete della musica folk, decisamente brillante, è apparso prima alla Carnegie Chapter e poi al Gere's Folk City con un repertorio notevole: questo ragazzo di appena vent'anni si chiama Bob Dylan ed è certamenmte un nome che impareremo a ricordare perché 0 suo è lo stile più originale che si sia sentito a Manhattan negli ultimi tempi». Oggi il Village è una creatura pulita del grande ventre di New York. Ma allora, per usare il luogo comune, il Village era il Village e conteneva una umanità che non si limitava a trasgredire, ma parlava, versificava, trovava i moduli dell'amore e della rabbia su un pentagramma contorto dal fumo e dalla birra, annerito dai joint di canapa, incline a viaggiare per acidi ma anche per vie lattee formate da grandi emozioni musicali, terribili e melodiche, perfette. Dylan appartiene alla grande casta umana dell'intelligenza ebrea, il suo vero nome è Albert Alien Zimmerman, nato in un postaccio del Minnesota, Duluth, il 24 maggio del 1941. E dunque pochi giorni fa è stato il suo compleanno a Londra, dove forse giace ricoverato in una clinica per una malattia misteriosa e terribile, simile alla tubercolosi ma nemica del cuore e del suo involucro, la stessa membrana che per tutti questi anni ha vibrato con tanta tenera e violenta generosità. Non era un musico da strada, né un improvvisatore, studiò sul serio piano e chitarra entrando poi nel gruppo dei Golden Chords (così lontani, come immagine, dai beat). Lì conosce - informano le sue biografie che da ieri ingombrano le reti dei computer e le agenzie di stampa - Echo Hellstrom, quella che diventerà la «Girl from the north country», cioè la ragazza del Canada. «Blowin' in the Wind» è del 1962, come «Don't think twice», e «Hard rain's gonna fail». Attacca le organizzazioni paramilitari, sferza un mondo moralmente flaccido e aggressivo, dà scandalo producendo arte, come tutta la pattuglia della migliore America di quegli anni di cui oggi purtroppo si va perdendo persino la nostalgia, fatti salve alcune santificazioni ideologiche. Per l'America la sua canzone era molto, molto scandalosa: la caccia alle streghe era appena finita e il ragazzo Bill Clinton non aveva ancora motivo di squagliarsela per evitare il Vietnam. Dylan, che ha segnato la stagione del Vietnam, nasce prima, è già forte nella voce e nell'immagine, forte nella poesia e nel cuore dei giovani americani quando i primi reparti sbarcano a Da Nang, tentano di risalire il Mekong bruciando villaggi. Ma prima ancora che tutto ciò accadesse, Bob Dylan aveva scritto la «Ballad of Donald White» in cui cantava: se avessi avuto uno straccio d'educazione potevo diventare un dottore o un bravo artista, ma le mie mani le ho usate per rubare e da ragazzo mi chiudevano in cella, quello fu il mio inizio. Nessuno lo chiuse in cella, ma Dylan, come in Francia la Piaf, la Greco e Brassens, amava una malavita di fantasia, la ladreria di quelli che non accettano le regole e cantano nei pub, nei bistrot. A quelli della mia generazione la sua rinascita nel Rock'n'Roll interessò fino a un certo punto. Una grande vitalità, grande tecnica, non c'è che dire, grandi trionfi al «Rolling thunder revue» del 1975 con Joan Baez e Alien Ginsberg. Ed effettivamente la rivoluzione cominciata 13 anni prima proseguiva. Ma il 1975 fu anche il primo anno di pace dopo la fine della guerra e la musica dei grandi menestrelli cercava nuovi panorami per trasformarsi ed emergere. E il successo crebbe fino al trionfo al Madison Square Garden dove Bob cantò per «Hurricane», il pugile nero Rubin Carter. Oggi è malato e sale intorno a lui il brusio, la musica del timore, i vocalizzi della morte. Non è la prima volta. Nel 1966 ebbe un brutto incidente di motocicletta. Sparì. E Ellem Willis in «Cheetah» scrisse: «Voci orribili circolavano, Dylan era morto... orrendamente sfigurato... paralizzato... Ma mai, da quando Rimbaud disse: Io è un altro, un artista era stato tanto ossessionato dall'idea di fuggire dalla propria identità». Paolo Guzzanti Ma oggi nei bistrot del Village le sue canzoni vengono rispolverate Il poeta Alien Ginsberg: negli Anni Settanta aveva partecipato a uno show itinerante con Dylan