l'inquisitore di Hollywood McCarthy

Einquisitore di Hollywood Einquisitore di Hollywood lywood nei primi giorni del giugno 1947 protestavano per il licenziamento di parecchi sceneggiatori e attori. La vertenza diventò politica e negli stessi giorni cominciò a funzionare la commissione parlamentare per le attività antiamericane. Il senatore Joseph R. McCarthy del Wisconsin, l'uomo che presterà il suo nome a quell'epoca feroce e mediocre, non era ancora entrato in scena, ma la storia stava preparandogli il terreno. Intanto, l'intero mondo del cinema fu convocato davanti alla commissione a Washington e tutti gli attori e gli scrittori di sceneggiature costretti a passare sotto le forche caudine della nuova inquisizione. La domanda del presidente di turno, arrampicato su un podio da cui sovrastava un'aula stracolma di fotoreporter, fonici, poliziotti e curiosi era sempre la slessa. «Lei è, o è mai stato, membro del partito comunista o delle sue organizzazioni?». Bisognava rispondere sì o no. In caso di risposta affermativa, si doveva rispondere alla domanda di delazione: «Ci dica i nomi degli altri componenti del suo gruppo, o associazione». La maggior parte degli artisti, umiliata e al tempo stesso rallegrata da quel momento pubblicitario, rispondeva con slancio patriottico, probabilmente autentico, di non aver mai voluto avere a che fare con il comunismo. Ma quasi sempre . /' con un tono ansioso e lievemente pate¬ tico. Ecco per esempio un timidissimo Gary Cooper, che ho ripescato in cineteca, che con un filo di voce e di imbarazzo dice: «No, signore, francamente non ho mai considerato di buon occhio i comunisti». Mentre l'attore Ronald Reagan risponde di non essere comunista, ma aggiunge anche che non intende farsi mettere i piedi in testa da nessuno: patriottico ma spavaldo e sottilmente ribelle, il futuro vincitore dell'«impero del male». E poi tutti gli altri, da Errol Il senatore McCarthy di fronte al Campidoglio rivedere le videocassette Flynn a Robert Taylor tutti condannati a contorcersi su una sedia a rotelle particolarmente scomoda, spesso andando fuori tema, parlando d'altro, divagando e quindi suscitando l'ira dell'inquisitore che picchia con il martelletto il legno della sua cattedra ed esplode in una serie ringhiosa e crescente di no, no, no, no e poi no: «Io non le ho chiesto la sua opinione, io voglio che lei risponda semplicemente con un sì o con un no alla domanda: è, o è mai stato comunista?». La fase più clamorosa di questo inizio di caccia alle streghe che sarebbe durata fino alla fi- J degli Anni Cinquanta, fu H ne ne quella che vide come protagonisti dieci sceneggiatori, scrittori e attori, chiamati appunto «I dieci di Hollywood». Sono andato a j rivedere le videocassette delle loro audizioni e il materiale è impressionante: uomini come Dalton Trumbo (l'autore di Papillon), Albert Maltz, Edward Lawson e altri come Avah Bessie, Samuel Orty ed Edward Dmytryck, tennero bravamente testa all'inquisizione dopo aver deciso di ék servirsi del primo emenIf damento della Costituzione per avvalersi della facoltà di non rispondere. M Otto Preminger, con il suo vestitone rigato, il cranio peli lato e il suo terribile accento fu uno di quelli che alzarono la voce. Ma la maggior parte degli artisti piegò la testa, o considerò un fatto di pura routine un'inchiesta come non se ne era mai vista una in America. I dieci ribelli erano inizialmente undici, ma l'undicesimo era Bertolt Brecht, esule negli Stati Uniti durante la guerra, il quale negò di far parte di qualsiasi organizzazione, ma rifiutò altre domande, fece le valigie e lasciò gli Stati Uniti. Quel che era accaduto nel governo americano e nell'anima popolare in quegli anni va ricordato, per poter capire anche la caccia alle streghe che ispirerà II Crogiolo di Arthur Miller. La tensione ideale di un fronte antifascista negli Stati Uniti era crollata già nel '45 quando erano ancora in corso le operazioni di guerra, ma fu certamente la bomba atomica a cambiare le sorti psicologiche dell'alleanza contro tedeschi e giapponesi. E di conseguenza a mutare gli stati d'animo all'interno. Il 4 febbraio di quell'anno Churchill e Roosevelt ancora premevano su Stalin affinché si decidesse ad intervenire contro il Giappone e aderire alle Nazioni Unite, in cambio di una certa libertà d'azione nell'Europa dell'Est. Il 12 aprile Roosevelt moriva, lasciando la presidenza al suo vice Truman. L'8 maggio del '45, con la resa tedesca, Stalin si trovò nelle condizioni di poter onorare l'impegno preso con Roosevelt, e cioè intervenire contro il Giappone entro tre mesi. Ma il 17 luglio gli americani avevano fatto esplodere la prima bomba atomica e Truman stava cambiando radicalmente la sua linea di condotta con il suo ex alleato, di cui come molti americani diffidava profondamente. Fu così che Stalin, avvertendo il cambiamento di umore del Presidente americano, decise l'invasione della Manciuria pochi giorni dopo l'esplosione della bomba atomica di Hiroshima usando truppe smobilitate dall'Europa. Fu una operazione militarmente formidabile, tanto che provocò negli americani quel misto di ammirazione e di paura che poi provarono quando i russi misero in orbita il primo Sputnik. Ma avevano il conforto della bomba atomica che assegnava loro un periodo di supremazia irraggiungibile. Il nuovo corso diventò presto un «mood», uno stato d'animo collettivo. Di colpo si sentì fuorilegge la piccola ma vitale nicchia della sinistra americana, la stessa da cui era nata la «Lincoln Brigade» che si era battuta in Spagna contro tedeschi e italiani; quella che aveva prodotto la miglior sociologia radicale nei programmi pubblici del «New Deal» rooseveltiano. Lo stesso Roosevelt aveva mantenuto fino alla fine della sua vita un atteggiamento ragionevolmente positivo nei confronti dei comunisti, cosa che aveva contribuito a inferocire la stessa destra democratica, oltre quella repubblicana. Le elezioni di mezzo termine fecero crescere al Congresso gli elementi ostili a qualsiasi accordo con i russi e sarà proprio dal Congresso, e non dalla Casa Bianca, che partiranno la caccia alle streghe e il maccartismo. Sono gli anni in cui Harry Truman regna ma non governa, con un congresso nemico alle spalle che gli boccia ogni legge e ne propone di sue, fiscalmente demagogiche e politicamente radicali. L'entrata in campo del senatore McCarthy, nel 1950, è lo sviluppo di un processo in corso da quando Truman ha deciso una politica di «contenimento» nei confronti dell'Urss, ha preso in mano le sorti della Grecia e della Turchia minacciate da movimenti di guerriglia comunisti e dato un tale giro di vite alla politica estera da provocare le dimissioni del segretario di Stato James Byrnes. Sul fronte esterno era nata la «dottrina Truman» che metteva al primo posto «la difesa senza esitazioni del mondo libero»: gli Stati Uniti cominciavano a sostituire inglesi e francesi nei punti nevralgici degli ex imperi, per far fronte al «contenimento» della Russia di Stalin, dalla Grecia all'Italia. McCarthy era un curioso personaggio, molto simile caratterialmente a Di Pietro: un eloquio rozzo e trascinante, improvvisi momenti di timidezza, un senso del potere straripante, era un inquisitore nato ma (e qui finisce il confronto con Di Pietro) invaso da una visione paranoide e complottista che non si fermò di fronte a nessuna autorità. Non solo McCarthy scatenò una caccia alle streghe in tutti i settori della vita pubblica e privata, ma pretendeva di decidere lui e soltanto lui chi fossero le streghe, dove si annidasse un complotto comunista e chi ne fossero i capifila: la sua prima impresa denigratoria fu contro il Dipartimento di Stato quando accusò 0 titolare Dean Gooderham Acheson di proteggere 205 noti comunisti. Quindi attaccò un mostro sacro ed ex vicedirettore del servizio informazioni per il Pacifico, accusandolo di essere «il più importante agente sovietico di spionaggio negli Stati Uniti». Accusò perfino il segretario alla Difesa, George Marshall, di tollerare una cospirazione comunista. Tutte queste accuse risultarono poi infondate. McCarthy alla fine, era il 1954, si cacciò in una trappola ridicola che ne determinò la fine: insultò un generale eroe di guerra a proposito della lealtà di un dentista dell'esercito e si trovò di fronte la potente struttura militare che lo demolì. Fu nominato un nuovo comitato speciale del Senato presieduto da Arthur V. Watkins che mise sotto inchiesta McCarthy, lo riconobbe colpevole di irregolarità e lo costrinse alle dimissioni. E nel giro di poche settimane il grande inquisitore sparì dalla scena politica, il clima di anticomunismo militante e ossessivo si attenuò, la Corte Suprema riaffermò la validità del Bill of Rights che ristabiliva il diritto di tutti i cittadini ad ottenere il passaporto, a non subire indagini immotivate, e la vita civile americana cominciò a rientrare nei ranghi del diritto, fino a quel momento calpestato. La caccia alle streghe era durata sette anni, come la seconda guerra mondiale. Paolo Guzzanti compagnandosi a uomini in vista, la Steinem ha sempre cercato di imbruttirsi. Fosse davvero possibile ridurre ai pregiudizi maschili il problema dell'ingresso nel mondo del lavoro di qualche bel paio di gambe con le calze velate, Nancy Friday non avrebbe impiegato oltre seicento pagine per convincerci che ovunque vada una donna è accompagnata dall'immagine che ha di sé, che spesso rinuncia a usare la bellezza per timore dell'invidia, che le madri sono mostri competitivi e ipocriti, che gli uomini sono adorabili, che la rivoluzione sessuale era un'epoca d'incanto, e che nessuno si masturba abbastanza. Quello che questa donna solare (sui sessanta?), accompagnata da un marito aitante e potente (più giovane?), non dice, è che al contrario della Steinem non si viene cuscriminate perché si è belle, ma di solito si ottiene il lavoro poi si viene punite per la medesima ragione. Parla la femminista mentre esce il suo manifesto della seduzione accettare che una madre abbia sentimenti ambivalenti nei confronti di una figlia adolescente, quando è perfettamente naturale. Abbiamo paura di usare la bellezza perché questa crea invidia, e non capiamo che per risolvere questi problemi basterebbe accettare una competizione sana». Sarebbe a dire? «Sarebbe a dire competere per vincere ma imparare anche a perdere, perché la vittoria po trebbe arrivare un'altra volta. Essere capaci, come madri, di dire alla propria figlia: "Cara, sei così bella, tutti ti guardano e io mi sento così vecchia", invece di raccontarsi panzane come "siamo così amiche"». Per Nancy Friday ribellarsi a questa che chiama l'Età dell'Invidia significa ritrovare valori come il garbo e l'onestà, accettare la sfida del mondo presentandoci al meglio, coltivare il potere della femminilità anche quando si invecchia, e spiegarsi tutto tra genitori e figli. A lei, che ha sofferto di essere