le rapine ultima verità dei pentiti

Con le loro dichiarazioni, Avola e i fratelli Samperi avevano fatto condannare boss e killer di mafia Con le loro dichiarazioni, Avola e i fratelli Samperi avevano fatto condannare boss e killer di mafia le rapine, ultima verità dei pentiti Catania, 3 in cella per due assalti in banca collaboratori di giustizia che si sentono abbandonati. Purtroppo, ha scelto la risposta peggiore a certe inerzie dello Stato». Di tenore analogo le dichiarazioni dell'avvocato difensore di Claudio Samperi, Francesco Rocca. La pensa diversamente l'avvocato Enzo Guarnera, difensore di Alfio Samperi, che ha già rinunciato al mandato: «Se hanno sbagliato devono pagare senza sconti o attenuanti di sorta. Chi ha deciso di abbandonare la vita criminale, lo deve fare senza tentennamenti e chiudendo con il proprio passato». E adesso, che fine faranno i processi per mafia nei quali le dichia¬ razioni di Avola e dei Samperi sono state determinanti? «Il loro arresto non inficia le dichiarazioni - dice il procuratore Mario Busacca perché sono state ampiamente verificate e provate». Dalle dichiarazioni dei Samperi e Avola sono nati i due più importanti processi alla mafia catanese, con i quali si è fatta luce su delitti eccellenti, come quello del giornalista Pippo Fava del quale Avola si è autoaccusato, e che hanno permesso di ricostruire l'intreccio mafia, politica, affari. L'ex ministro Salvo Andò è sotto processo per voto di scambio con la cosca Santapaola per le dichiarazioni di Samperi. E Avola è tra i testi d'accusa del processo per concorso in associazione mafiosa che vedrà imputato a Palermo, Marcello Dell'Utri. Lo scorso anno un altro caso, clamoroso, aveva acceso la micciapentiti: Giuseppe Ferone durante la collaborazione uccise la moglie di Santapaola e ordinò il delitto della figlia di un boss avversario, facendola ammazzare al cimitero. «Nel caso di Ferone si è trattato di una vendetta studiata a tavolino - dice Busacca - qui probabilmente è stata la mancata abitudine ad una vita diversa, meno ricca». Fabio Albanese I magistrati «L'arresto non può pregiudicare le loro confessioni che sono già state ampiamente provate e controllate» A sinistra Maurizio Avola, arrestato ieri per due rapine compiute a Roma Sopra il giornalista Pippo Fava, ucciso in un agguato mafioso il 5 gennaio '84 Tre anni fa Avola si è autoaccusato di quell'omicidio Dietro ai boss che riprendono a delinquere ci sono le inadeguatezze e gli errori accumulati nella gestione dei collaboratori ESISTE il ragionevole sospetto che, d'ora in avanti, dovremo abituarci sempre più a notizie come quelle che riguardano l'attività, diciamo, «extraistituzionale» dei signori Avola e Samperi, un tempo malavitosi a Catania, poi collaboratori di giustizia sedicenti pentiti e, infine, rapinatori di banche a Roma. Dopo una lunga, controversa e perniciosa gestazione, infatti, sembra esplodere il «bubbone» della gestione-pentiti, alimentato per anni da una amministrazione tanto dissennata quanto eccessivamente poco trasparente. E' tutta da rivedere la storia del pentitismo mafioso, oggetto di desiderio da parte di pochi magistrati che in epoca difficilissima si giocarono tutto, alcuni anche la vita, per riuscire a far attecchire lo strumento ancor oggi considerato «indispensabile» nella lotta ai clan criminali. Ma dopo soli pochi anni, una formidabile arma di contrasto - oggi - si è sostanzialmente ridotta ad una sorta di «peso», una «incompiuta» difficilmente governabile, dove i rimedi potranno rivelarsi addirittura peggiori dei mali. Cosa è accaduto? All'inizio si son dovute vincere le resistenze, i ritardi culturali, di un apparato impreparato all'avvento del «collaborazionismo mafioso». Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e pochi altri hanno accettato la difficile scom-

Luoghi citati: Avola, Catania, Palermo, Roma