«C'è Aglieri dietro lo Fenice», è giallo
«C'è Aglieri dietro lo Fenice», è giallo Venezia, inquirenti molto cauti. Da Palermo un magistrato antimafia: è un personaggio inattendibile «C'è Aglieri dietro lo Fenice», è giallo Tirato in ballo da un confidente VENEZIA NOSTRO SERVIZIO L'arresto dei due elettricisti non cancella l'ipotesi della pista mafiosa per spiegare l'incendio della «Fenice». Il pm Felice Casson lascia intendere che la strada che conduce a «Cosa Nostra» viene ancora sondata. Specie dopo che nelle mani degli inquirenti è arrivata una segnalazione che porta all'erede di Totò Riina, il latitante Pietro Aglieri, boss palermitano di Villa Grazia. Se, da una parte, i due elettricisti avessero appiccato il fuoco per sottrarsi alla penale perché la loro ditta era in ritardo sui lavori, dall'altra Pietro Aglieri - che insieme con Bernardo Provenzano è uno dei grandi capi di «Cosa Nostra» ancora in libertà - avrebbe avuto ben altre ragioni per devastare «La Fenice». A rivelarlo è stato un collaboratore siciliano, Domenico Di Marco. Un pentito da prendere con le pinze, però, le cui dichiarazioni già in altre occasioni sono state messe in discussione dagli stessi investigatori e che, secondo il sostituto procuratore della direzione antimafia di Palermo, Alfonso Sabella, «è un soggetto assolutamente inattendibile». Di Marco aveva inviato un esposto alla magistratura raccontando di avere avuto da un cugino affiliato alla famiglia di Villa Grazia di Palermo informazioni sul rogo. Sarebbe stato lo stesso capomandamento Aglieri a confidare al parente di Di Marco, quando l'incendio era già avvenuto, che nel gen¬ naio 1996 era partito da Palermo con il suo luogotenente Carlo Greco per raggiungere Venezia. All'epoca, nell'aula bunker di Mestre, era in corso un grosso processo di mafia. Aglieri e Greco, stando al racconto, dovevano compiere un gesto clamoroso e intimidatorio, che doveva funzionare come messaggio per la Corte d'assise d'appello di Caltanissetta, la quale non avrebbe dovuto confermare le condanne dei giudici di primo grado. Questi, infatti, avevano ritenuto attendibile il pentito Scarantino - colui che collaborò per gli arresti della strage di via d'Amelio in cui morì Paolo Borsellino. Scarantino aveva ferito l'onore di Aglieri affermando di essere stato affihato a «Cosa Nostra», benché omosessuale, proprio dal boss di Villa Grazia. Aglieri e Greco, secondo le rivelazioni di Di Marco, sarebbero entrati all'interno del teatro «La Fenice» la sera del 29 gennaio 1996 per innescare l'incendio utilizzando i loro accendini. Una ricostruzione dei fatti ritenuta poco attendibile dagli inquirenti, che tuttavia hanno iscritto nel registro degli indagati sia Aglieri, sia Greco. Intanto si vanno delineando le presunte responsabilità per il rogo. Se il magistrato ritiene che Enrico Carella e Massimiliano Marchetti siano gli esecutori dell'incendio, gli investigatori sono convinti che qualcuno possa aver visto qualcosa ma non abbia parlato davanti al magistrato. Come il portiere e il fotografo de «La Fenice», Gilberto Paggiaro, già indagato, e Giuseppe Bonannini, semplice testimone, che furono gli ultimi a lasciare il teatro quando il fuoco ormai divampava. E' questa una convinzione che gli investigatori della Digos hanno scritto nel loro rapporto inviato al pm Felice Casson e sulla base del quale sono stati arrestati i due giovani elettricisti. Mariagrazia Raffele Presto nuovi «avvisi» dopo i due arresti Il rogo della Fenice. Sopra: il giudice Giovanni Falcone
Luoghi citati: Caltanissetta, Palermo, Venezia
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