Gli ayatollah che sorridono di Aldo Rizzo

Gli ayatollah che sorridono Gli ayatollah che sorridono II voto conferma la voglia di realismo DALLA u N regime, è ovvio ricordarlo, nato dalla rivoluzione dell'ayatollah Khomeini nel 1979, contro la monarchia filo-occidentale, ma autoritaria e anche corrotta, di Reza Pahlevi. Uno scatto libertario e modernista, ma quanto concreto, efficace, durevole? Questo è il punto. Va detto o ricordato subito che le elezioni presidenziali non prevedevano la presenza di più partiti o schieramenti politici, esclusi dalla Repubblica islamica fondata appunto da Khomeini, ma solo diversi candidati all'interno dello stesso sistema. Resta indiscussa l'autorità politico-religiosa di AH Khamenei, il sommo capo sciita, la «guida della Repubblica», il successore di Khomeini. Ad essa dovrà comunque rispondere il nuovo eletto. Se non vuole aprire una crisi di sistema dagh esiti imprevedibili, anche per lui. Ma una novità di questo genere non era e non è neppure pensabile. La vera novità sta altrove. Sta nel fatto che, dentro il sistema, si è aperta una dialettica, quale mai prima. Certo, il predecessore di Khatami, il presidente uscente Hashemi Rafsanjani, era considerato lui stesso un «riformista», il primo, dopo l'esordio «medioevale» di Khomeini. Ma la sua presidenza, a conti fatti, non ha introdotto novità di rilievo. Si è parlato a lungo del suo «pragmatismo», e non sono mancati tentativi di riforme, «aperture» varie all'interno e all'esterno, ma senza risultati concreti. L'Iran ha continuato ad essere il nemico giurato di Israele in Medio Oriente e l'oggetto di troppi sospetti per le attività terroristiche anti-israeliane e anti-occidentali. E' possibile tuttavia che Rafsanjani non si sentisse ancora in grado di dare un seguito alle sue promesse, e che Khatami, il presidente eletto, sia l'uomo giusto, nel tempo giusto, per continuare concretamente il discorso. E in favore di questa tesi o ipotesi sta il fatto che Rafsnjani ha sostenuto la candidatura di Khatami, contro i tradizionalisti e i conservatori che hanno appoggiato Nateq Nouri. A parte questo, conta l'asprezza, persino, della campagna elettorale tra i due maggiori candidati, la «formazione sociale» che ha portato alla vittoria Khatami, la rivelazione, se tale è, di una maggioranza di uraniani, soprattutto giovani, che senza rompere con la «rivoluzione» chiedono di partecipare all'avventura globale (politica, economica, tecnologica) del mondo del Duemila. In autonomia, ma forse anche senza contrasti pregiudiziali, con l'Occidente. E comunque dimostrando una complessità del loro «sistema Paese», non paragonabile, nonostante tutto, con altri opinabili regimi dell'area, come la Siria e l'Iraq. E l'Occidente, appunto, che può o deve fare di fronte a questa potenziale, grossa novità? Questo è il quesito conclusivo. Deve credere che la sua fermezza (soprattutto americana, ma ultimamente anche europea) sta avendo, sta per avere, im suo premio, oppure che ha «pagato» la via di mezzo, il parlarsi e il non parlarsi, il condannare politicamente il regime ma fare con esso commerci vantaggiosi? Un dato realistico, si può dire cronologico, è che questa sorprendente vittoria del candidato moderato-riformista segue quasi immediatamente la rottura del «dialogo critico» degli europei (in aggiunta al «no» di Usa e Israele), dopo la condanna della Corte penale di Berlino di agenti iraniani, per l'assassinio di oppositori ciudi. Con conseguente ritiro degli ambasciatori. Quanto meno, non c'è stato un «backlash», una reazione di rigetto. Forse c'è stata una riflessione sui pericoli di un isolamento ormai totale, non compensabili dalle aperture, strumentali e relative, negli attuali rapporti di forza, di Mosca e Pechino. E allora adesso è proprio il momento del dialogo critico, pragmatico, fatto di approcci e di pressioni ben calcolati. Per gli Stati Uniti e per gli europei, in una strategia comune. Per far capire che una vera svolta sarebbe a vantaggio di tutti, mentre un «urto di civiltà» sarebbe un disastro per tutti. Aldo Rizzo