Ma nel «modello catalano non c'è posto per Bossi di Ugo Bertone

Ma nel «modello catalano non c'è posto per Bossi Ma nel «modello catalano non c'è posto per Bossi UN ESEMPIO DA COPIARE? BARCELLONA DAL NOSTRO INVIATO «Madrid, crema...», ovvero, «Madrid sei finita, bollita» grida dal balcone della Generalitat, il Parlamento catalano, Roberto Duenas, campione (castigliano) di basket in forza al Barcellona. E la folla del Barga, impazzita, invade le ramblas per tutta la notte. Facile che il Real Madrid di Fabio Capello vinca lo scudetto della Liga (ma qui giurano che finirà in un altro modo) ma intanto, in questi giorni, Barcellona e il Barcellona (104 mila soci, una lunga lista d'attesa per esser ammesso nel club) si sono consolati con la pallacanestro, dopo aver espugnato l'odiata Madrid. Una notte di follia e gioia, quasi avesse vinto la squadra di Ronaldo e Pujol in persona, padre-padrone della Catalogna, a benedire le imprese del club. A giudicar dalla prima impressione, sembra che anche qui soffi vento di rivolta, come nel Nord-Est di casa nostra. La Catalogna, ad esempio, si accinge a votare una legge a favore dell'uso della lingua catalana che gli immigrati dal Sud di Spagna, quasi la metà della popolazione, giudicano discriminatoria; José Maria Aznar, primo ministro, intanto tuona dalla capitale che ora basta, la Catalogna ha avuto troppo, in soldi e autonomia. E dalla sua c'è l'opinione di 4 spagnoli su 5, convinti che la ricca Barcellona si nutra delle loro disgrazie. «Già - replica lo storico Josep Sort - ma non c'è catalano che non mastichi amaro quando pensa che a Madrid le autostrade sono gratis. E qui, invece, paghiamo il pedaggio». Sembra, insomma, di stare alle porte di Vicenza o nella provincia padovana... Suonano anche qui le trombe della secessione? Barcellona come Venezia? La sirena leghista, a dire il vero, è snobbata da tutti. Bossi, qui, poche settimane fa è stato snobbato da tutti, salvo un minuscolo partitino indipendentista cui nessuno attribuisce grande importanza. «Bossi? Mi ripugna» risponde Jaume. Fuster, presidente degli scrittori catalani, intellettuale di punta nella Barcellona di oggi. «Non ho una grande opinione di lui...» si è limitato a dire Jordì Pujol «virrey» di Catalogna, il simbolo del boom di questa terra. Un nazionalista moderato, medico, che ha passato due anni nelle galere di Franco per aver osato cantare un inno catalano davanti al Caudillo. E per quel che riguarda il Veneto valga il commento di Antoni Subirà, ministro dell'Industria di Catalogna, il braccio destro di Jordì Pujol. «Anche stamane - dice - ho citato agli industriali ca- talani l'esempio dell'industria degli occhiali di Belluno e Padova. Piccole imprese che conquistano il mondo. Vengano pure da noi questi veneti». Porte aperte alle imprese, insomma, ma per Bossi non c'è spazio. Certo, anche qui cresce il desiderio dell'indipendenza. A molti l'autonomia concessa nel '78, dopo la caduta del franchismo, va ormai stretta. Ma, almeno per ora, l'obiettivo è un altro: arrivare alla moneta unica tra i primi, catalani e spagnoli. Poi, una volta in Europa, si vedrà. «Vede - continua Subirà - noi catalani abbiamo giocato un ruolo decisivo per portare la Spagna in Europa. Prima con i socialisti, poi con Aznar. Tutti e due i partiti hanno dovuto adeguarsi alla nostra politica economica. Abbiamo dimezzato l'inflazione, ridotto il deficit al 2,8%, abbassato il debito. Tutto questo, in buona parte, è dovuto ai tagli che abbiamo voluto. La Spagna, grazie a noi catalani, ce la farà ad entrare a Maastricht...». E qui Subirà si scusa e si congeda: è in partenza, per affari, alla volta di Pechino. Assieme a lui, a Tokyo, ci sarà lo stesso Pujol. Antoni Negre, presidente della Camera di Commercio, intanto, si intrattiene con una delegazione coreana. La materia dell'incontro? Accordi in vista per i porti catalani che solo un mese fa Pujol è riuscito a sfilare al controllo di Madrid. «Bisogna far così commenta Negre - una cosa per volta. I porti, la polizia, il controllo della Sicurezza sociale. L'economia, la cultura, bisogna riprendersi tutto, ma dolcemente e senza strappi. A noi e alla Spagna conviene stare assieme...». «Abbiamo una grande classe politica, capace di capire, anzi di anticipare i problemi in vista di Maa¬ stricht. Sono loro, Pujol ma anche Pascual Maragall, a sferzare le imprese, a chieder loro più coraggio. Ma anche a fornire buone infrastrutture». Ve l'immaginate un elogio del genere di Fossa ai politici italiani? Eppure Juan Roseli, 40 anni, presidente del Fomento del Treball, la più antica Confindustria d'Europa, non ha dubbi. «Grazie al lavoro di questi anni entreremo in Europa. No, non mi preoccupano le liti con Aznar. Questa è la politica, è normale». Intanto le multinazionali fanno la fila per operare qui: Yamaha, Nissan, Volkswagen, Seat, Hunday, Daewoo, Hewlett-Packard. I giapponesi hanno aperto addirittura una scuola e campi di golf. Dove trovare, del resto, una metropoli così invitante che, nel giro di dieci anni, ha saputo creare nel cuore della città due porti turistici immensi, zeppi di ristorantini e posti di ritrovo, chilometri di spiagge pulite dove prima c'erano depositi abbandonati, un centro museale, un teatro, il risanamento del Barrio Chino, il quartiere malfamato cantato da Manuel Vazquez Montalban? E l'elenco potrebbe continuare... La storia del miracolo catalano, in sostanza, sembra, del resto più questione di uomini che di regole. All'origine, c'è la Costituzione del '78 che ha dato vita allo «Stato delle autonomie» dividendo la Spagna in 17 regioni e concedendo a tre di esse (Catalogna, Paesi Baschi e Galizia) statuti speciali con poteri ampi. Una concessione dall'alto, dunque, e non una federazione tra eguali come vorrebbero i nazionalisti catalani. La Barcellona di Pujol e Maragall, il sindaco socialista, questi poteri li sfruttano in maniera egregia, conquistando le Olimpiadi. Piovono i quattrini su Barcellona ma, a giudicare dai risultati, si tratta di quattrini ben spesi. «Sono stati investiti 5 mila miliardi in sei aimi - calcola Jacint Ros Hombravella, economista formato alla London School - lo Stato però ne ha già incassato la metà sotto forma di diritti, Iva incassata e altri tributi». Ma la vera svolta avviene nel '93 quando Felipe Gonzàlez, socialista, fino ad allora leader incontrastato, subisce gli effetti della «Mani pulite» spagnola. L'unico modo per restar in sella è far l'accordo con i 17 deputati catalani del Ciu. Pujol accetta, in cambio di più autonomia e, soprattutto, più quattrini a disposizione della Generalitat. Gonzàlez cede e, da allora, il 15% dell'Irpef catalana torna a Barcellona. Ma quando la richiesta sale al 30%, il leader socialista insorge. Si va a votare e prevale di poco il fronte conservatore guidato da José Maria Aznar, fioro avversario dell'autonomia catalana. «Pujol nano, nabla ci castellano» i; il primo slogan cantato dai sostenitori di Aznar quando la maggioranza assoluta sembrava cosa fatta. Ma Pujol ha la fortuna che le urne hanno negalo a Bossi: il Ciu resta ago della bilancia, la destra, per governare, deve trattare. E il piccolo, indomabile viceré di Barcellona, non si fa molti scrupoli: per 55 giorni tiene Aznar fuori della porta, a bagnomaria, poi detta l'accordo a condizioni ancor più dure di quelle proposte a Gonzàlez. In questi anni, di qui al Duemila, nelle casse catalane torneranno così 5 miliardi di Irpcf. «Ma anche così - spiega Ros Hombravella - noi catalani diamo allo Stato molto, ma molto di più di quanto incassiamo in servizi. Circa 15 mila miliardi all'anno,il 10% del nostro Pil. E per un ricovero in Catalogna lo Stato spende meno che in Andalusia». Già, ma l'Est.remadura socialista, la Calabria iberica, si lamenta perché sta per saltare il principio di solidarietà... «Tra Franco e la democrazia è da sessantanni che si applica la solidarietà. E non è cambiato niente. Anzi, si è favorito l'assistenzialismo. La cosa poteva funzionare prima, quando il mercato interno era chiuso e noi servivamo la Spaglia. Ma ora c'è Maastricht. Barcellona esporta a Nord e per competere ha bisogno delle sue risorse, di tutte le sue risorse». «E' così. Pujol non ha saputo sfruttare l'occasione: dovevamo avere più soldi, ma, soprattutto, mandar via la polizia spagnola e avere autonomia nella giustizia» aggiunge Herbert Barrerà, 80 anni, soldato contro Franco, figlio di un ministro della Repubblica e primo presidente della Generalitat. Lui, professore di chimica, si rifiutò di insegnare finché non gli fu consentito di parlare catalano. Adesso, all'università di Barcellona, il rettorato distribuisce agli studenti un opuscolo in catalano che racconta i secoli di oppressione della lingua catalana, dal '700 fino alla dittatura di Franco (proibiti saggi e romanzi, consentite solo alcune poesie popolari). «Nelle facoltà scientifiche spiega il fisico Josep Pons Rafols, vicerettore - il 70% degli esami si fa in catalano». A legge, però, si scivola al 30%... «Sì, perché il diritto è in mano allo Stato centrale. Solo il 5% dei processi avviene in catalano». La scienza e la tecnica in mano a Barcellona, i processi e la burocrazia a Madrid. Anche stavolta il campionato sarà incerto e combattuto. Come sempre. Ugo Bertone Così Barcellona ha costretto Madrid a rendere l'Irpef FRANCIA CATALOGNA O SNW3CZZA SPAG VALENCIA LERIDA Is. BALEARI ^BARCHiONA \RRAG0NA Mare Mediterraneo