Teheran, le donne non stanno a guardare

Teheran, le donne non stanno a guardare reportage diciotto anni di chador Fine del divieto di fare sport, aiuti alle divorziate, posti in Parlamento: il riscatto delle iraniane Teheran, le donne non stanno a guardare Alla rincorsa del potere TEHERAN NOSTRO SERVIZIO In una strada chiusa al traffico, nella zona più ricca di Teheran, la guardia d'onore saluta una processione di donne fasciate di nero, che si affrettano verso una lussuosa palazzina. Appena entrate, lasciano cadere i lunghi chador e appaiono chiaramente vestite per un party: capelli laccati, trucco accurato, abiti occidentali. A fare gli onori di casa c'è Fatimah Hashemi, la figlia trentaseienne del presidente iraniano, Ah Akbar Hashemi Rafsanjani. Una donna attivissima: guida un'organizzazione femminile collegata al ministero degli Esteri, una fondazione per malattie rare e un ospedale urologico d'avanguardia. Pochissimi iraniani sanno che faccia abbia - come accade per tutte le altre donne legate all'elite della Repubblica Islamica. La serata alla quale sono stata invitata è per sole donne. Per questo Fatimah si spoglia del chador e si rivela in un tailleur di sartoria verde e bianco. Affascinante ed estroversa, aveva 18 anni quando sposò l'uomo scelto dai suoi genitori. Oggi è madre di due figli ed è una delle nuove donne di potere in Iran. Appartiene infatti all'elite femminile legata al regime: fighe leali delia rivoluzione del 79, che sono riuscite a entrare nel fluido, misterioso labirinto della politica iraniana per negoziare con cautela qualche cambiamento. Il suo messaggio va ben oltre l'abito: sebbene l'Occidente consideri le donne iraniane ignoranti, arretrate e oppresse, lei e altre come lei appartengono al mondo moderno. Il tema è sottolineato dall' ospite d'onore della serata, Hamideh Rabbani, la figlia dell'ex presidente dell'Afghanistan, espulsa lo scorso anno dai fondamentalisti islamici noti come Taleban. Rabbani, che ora vive felicemente in Canada, incanta l'uditorio con racconti raccapriccianti sulla condizione delle donne sotto la legge dei Taleban: non possono andare a lavorare né mandare le fighe a scuola né ricevere cure mediche negli ospedali. Fatimah rimane a bocca aperta, sdegnata e incredula come una qualunque femminista occidentale. Non è apparenza: in Iran, le donne costituiscono un terzo della forza lavoro e quasi la metà della popolazione universitaria, guidano l'automobile, vanno a fare la spesa e dirigono aziende. E, soprattutto, votano e occupano cariche politiche. Anche nei Paesi mediorientali filo occidentali, come l'Arabia Saudita o 0 Kuwait, la maggior parte di queste cose è proibita alle donne. «L'immagine che il mondo ha delle donne iraniane è totalmente distorta - si lamenta Fatimali -. Non è giusto». Ma questo è soltanto un aspetto della storia. Fatimah è cieca, qualche volta per opportunismo, alle rigide restrizioni imposte alle donne dal regime islamico fondamentalista. Le donne iraniane, ad esempio, non possono stringere la mano a un uomo che non sia un consanguineo. Non possono fare jogging, nuotare o andare in bicicletta, tranne negli spazi riservati a loro. Non possono mostrare in pubblico la testa, il collo o le curve del corpo. Non possono diventare giudici né leader religiosi. L'adulterio è ancora punito con la lapidazione, la custodia dei figli dopo il divorzio spetta ai padri, le ragazze possono essere maritate appena raggiungono la pubertà. Come accadeva sotto lo scià, le donne non possono lasciare il Paese senza l'autorizzazione scritta dei mariti, lo stupro è spesso considerato colpa della donna e la sua testimonianza in tribunale vale la metà di quella di un uomo. Così le donne stanno usando il loro crescente peso politico per chiedere più diritti - come quello di praticare sport competitivi, di non essere picchiate dai mariti, di ottenere la custodia dei figli dopo il divorzio - ma anche più posti-chiave nel governo e parità di salario e di carriera. A guidare la carica non sono le solite professioniste laiche che per tutti questi anni hanno lottato ai margini della società per recuperare i diritti di cui i mullah le hanno private. Queste nuove donne di potere sono un prodotto della rivoluzione e perseguono un'agenda femminile rispettosa dei limiti dell'Islam. Vogliono qualcosa di molto più essenziale della sorellanza. «Vogliono il potere - spiega Haleh Esfandiari, autore del saggio Reconstructed Lives: Women and Iran's Isìamic Revolution (Vite ricostruite: le donne e la rivoluzione islamica iraniana) -. Le donne di regime inseguono il potere e lo usano per influire sulla legislazione e le politiche. Vogliono proiettare un'immagine femminile progressista, ma all'interno delle leggi islamiche. Nessuno può accusarle di essere marionette occidentali». Il loro ruolo è diventato uno dei temi più scottanti dell'islamismo di oggi. Durante la campagna per le elezioni parlamentari dello scorso anno, Fatimah disse pubblicamente che, alla luce della Costituzione iraniana, non c'era motivo per cui mia donna non potesse diventare presidente, dando così l'avvio a un dibattito nazionale ancora caldo. E il mese scorso Azam Taleqani, 54 anni, figlia del defunto ayatollah Mahmoud Taleqani, ha annunciato la sua candidatura a presidente pro¬ prio per chiarire la situazione. Cos'è cambiato in questi 18 anni, da quando gli ayatollah hanno occupato i palazzi dei re? Sono cambiati i capi spirituali, tanto per cominciare. Possono aggrapparsi ancora all'antica oratoria rivoluzionaria, ma capiscono benissimo che il popolo vuole prosperità, più che guida islamica. Per mantenere il sistema abbastanza rigido da poter governare ma abbastanza flessibile da poter sopravvivere, hanno imposto limiti rigidi lasciando però un certo spazio di manovra. Vogliono presentare l'Iran come uno Stato moderno e potente e, data la durezza con cui le donne vengono trattate in gran parte del mondo islamico, è comprensibile che i mullah cerchino di riabilitare la propria immagine onorando la centralità delle donne. Per quanto assoluta, la rivoluzione non ha cancellato completamente la società occidentalizzata costruita dallo scià Mohammed Reza Pahlehvi, nella quale le donne cominciavano ad avere un ruolo più importante. Con la rivoluzione degli ayatollah, molte professioniste laiche lasciarono il Paese. Molte altre persero il lavoro e il potere, alcune anche la vita. Molte però conclusero una difficile pace con i nuovi governanti, continuando a fare il medico, l'avvocato, il professore universitario, la donna d'affari. Ma anche la gran massa delle donne iraniane è cambiata. Sotto lo scià, l'Iran era lo Stato più secolarizzato del Golfo persico. Ma la libertà di cui godeva l'elite femminile di Teheran educata in Occidente non significava molto per la maggioranza, le pie donne delle classi inferiori che non avevano mai smesso di portare il velo. Fu la rivoluzione a politicizzarle, promettendo loro la liberazione, o per lo meno un posto nella società. Ma le promesse non furono rispettate, e molte si sentirono tradite. Così cominciarono a ribellarsi, pacatamente. Con la recessione economica e gli otto anni di guerra con l'Iraq, dove molte persero i mariti e i figli, alle donne non rimase altra scelta se non lavorare per mantenere la famiglia. E in un Paese dove la metà della popolazione è nata dopo la rivoluzione, i mullah hanno scoperto che non possono permettersi di escludere le donne, soprattutto quelle giovani, dal governo, dal lavoro e dall'istruzione. Tutti questi cambiamenti hanno creato un'apertura politica che le donne di .regime sono state ben leste a sfruttare. Sono un gruppo molto piccolo, al massimo una trentina. Tra di loro, ci sono un consigliere del presidente per la questione fernminile, un viceministro, il sindaco di un quartiere di Teheran e 13 parlamentari sui 270 eletti. Leali verso la rivoluzione, con padri potenti e mariti e fratelli che le difendono, si sono impadronite dell'arte tutta iraniana di manovrare in stretti spazi politici, tastare il terreno e coprire gli spazi possibili. La loro strategia ha prodotto vantaggi piccoli ma significativi, soprattutto in Parlamento: salari alle casalinghe divorziate, quattro mesi di maternità obbligatoria retribuita, pari opportunità di lavoro. L'estate scorsa è stato legalizzato l'aborto quando la donna è in pericolo di vita. Chi non copre il capo e il corpo come si conviene non è più punita con 74 frustate, ma con il carcere, da 10 giorni a 2 mesi. Ciò nonostante, queste donne devono navigare in acque politiche insidiose e l'invito a cena che mi ha fatto Fatimah è un gesto audace: la descrizione sui giornali di donne come lei, vestite all'occidentale, potrebbe attirare pesanti critiche, come quella di essere state sedotte dall'Occidente e aver perso la devozione religiosa. Per questo devo negoziare con Fatimah quello che posso e quello che non posso scrivere: gli abiti sì, ma non il corpo né i capelli. L'indomani vado a visitare un'elegante palestra privata nel Nord di Teheran, dove le donne possono praticare sport come la pallacanestro, il karaté, lo squash o il judo al riparo dagli sguardi maschili. C'è anche un'enorme piscina dove nuotano duecento donne in costumi colorati. «Non è vero che le donne vanno in acqua con il chador nero, come si favoleggia», mi dice Fatimah Karamzadeh, direttrice del club. Ma a sorprendermi ancora di più sono le donne che girano nude negli spogliatoi. Pensare che ancora oggi ci sono estremisti religiosi che considerano l'esercizio femniinile frivolo e immorale. L'anno scorso, in un parco fuori Teheran, ronde maschili hanno picchiato le donne che andavano in bicicletta. Un gruppo di ayatollah ha denunciato come provocazione sessuale il ciclismo e l'ippica, ma anche la corsa e il canottaggio. Fatimah ha controbattuto, sostenendo che non c'è nulla di anti-islamico nell'andare in bicicletta. Il dibattito ha portato alla creazione di un percorso ciclistico nel parco riservato alle donne. Lo scorso anno Fatimah si è presentata alle elezioni e ha preso più voti di qualsiasi altro candidato, ad eccezione di Ah Akbar Nateq-Noori, portavoce parlamentare e candidato favorito alla presidenza del Paese. Così è diventata la figura pubblica femminile iraniana più schietta e controversa. Non c'è nulla di gentile o sentimentale in questa trentacinquenne, che rifiuta guardie del corpo e autista, urla dietro i due figli e avrebbe tanto voluto essere un maschio. Sotto il chador porta jeans e scarpe da ginnastica, incurante delle critiche. Si fa fare le mèches e rifiuta l'etichetta di «femminista» perché, spiega, la parola suggerisce «speciali privilegi per le donne». Sposata a 17 anni a un uomo scelto dai suoi genitori, non crede nell'amore romantico prima del matrimonio perché, spiega, «di solito non dura». Crede invece nel maggior potere alle donne. «Dal punto di vista sociale, artistico, atletico, le nostre donne sono superiori agli uomini, ma in politica non hanno fatto molti progressi. Gli uomini non devono dimostrare il loro valore per essere chiamati ai posti chiave, le donne sì». E' consapevole della sua vulnerabilità politica: «I capi spirituali sono molto potenti in questo Paese e noi dobbiamo agire in modo accettabile per loro. Quello che mi secca è che mi dipingano come una che cerca di impedire al governo di fare le cose. Se un'idea del genere mette radici, mi bloccherà». Elaine Sciolino N. Y. T. Magazine e per l'Italia «La Stampa» Fanno politica e jogging e sotto il velo portano il tailleur Le guida Fatimah una delle figlie del presidente Hashemi Rafsanjani A [FOTO ANSA] Una donna iraniana coperta dal tradizionale chador nero depone la scheda nell'urna