DITTA CANNIBALI AMMANITI E SCARPA di Mirella Serri

DITTA CANNIBALI AMMANITI E SCARPA DITTA CANNIBALI AMMANITI E SCARPA I nostri giovani bollenti LO scrittore cannibale non bolle in pentola il suo pubblico ma cerca di curarlo con attenzione, lo corteggia e lo coccola. E gli offre in pasto pagine che trasudano sangue e brividi. Niccolò Ammaniti, trentenne romanziere del gruppo dei narratori che si cimentano con le storie più cruente, quando scrive adotta il punto di vista di un suo lettore ideale. «Io sono sempre stato innamorato della letteratura dove prevale l'intreccio "forte", ricco di colpi di scena. Da Stephen King a James Ellroy a Robert Louis Stevenson a Joseph Conrad, mi hanno sempre affascinato gli scrittori dalle trame complesse. Sia per il mio primo libro, Branchie, che per il secondo, Fango, mi sono messo dalla parte di un pubblico immaginario che condivida con me la ricerca di sensazioni». Qual è il suo rapporto con l'editing, con una revisione dell'opera per renderla più appetibile e vicina al pubblico secondo criteri di mercato? «Non mi è mai capitato fino a oggi un problema del genere. Quando diedi alle stampe Branchie con la piccola casa editrice Ediesse (il libro adesso sarà ripubblicato da Einaudi), le osservazioni che mi vennero fatte furono soprattutto di carattere formale, su qualche "distrazione" nella scrittura. A scuola non sono mai stato eccezionale in italiano. Fango, pubblicato da Mondadori, invece non è stato cambiato in nulla». Come si diventa Il successo ottenuto, in qualche modo ha influito su di lei? «Un po'. Prima ero uno che faceva una discesa libera, adesso mi trovo davanti buche e paletti. Però io penso che sia giusto avere bene impressa l'idea del pubblico. Narratori che io ammiro, come De Carlo, Veronesi, Lodoli, sono molto attenti alla vita quotidiana, ai gesti minimali, a volte riversano l'autobiografia sulla pagina. Ma sono convinto che vi sia bisogno anche di narrativa choc, piena di effetti imprevisti». Che la narrazione vada somministrata al lettore come una specie di anfetamina lo ritiene anche il trentaquattrenne Tiziano Scarpa che, con il suo primo libro, Occhi sulla graticola (Einaudi), ha portato al diapason le emozioni di critici e lettori: «Un fantasma di pubblico uno quando scrive se lo configura sempre. Io penso a un pubblico macropupilla o iride iride che s'inghiotte tonnellate di alfabeto. Ma non sto in ginocchio davanti a lui. Ci vuole un pizzico di sano agonismo per sorprenderlo e stupirlo». E lei cosa fa per sollecitare questo stupore? «Il contrario di quello che ci si aspetta da me. Pubblico su MicroMega, rivista serissima, il racconto più porco che mi sia capitato di scrivere e a una rivista di critica affido un saggio di letteratura con lo stile dei comunicati Ansa. Quando ho consegnato l'opera prima a Einaudi, mi consigliarono un editing che non andava affatto incontro ai gusti del pubblico ma accentuava il mio estremismo linguistico, che Come si diventa enfant procUge: pubblico corteggiato tra sangue, coccole, e proclami del tipo «me ne frego dello stile» abbandonava la dimensione narrativa per spingersi verso quella saggistica. Non mi convinceva». Si sente condizionato nel nuovo libro che sta scrivendo dai giudizi che ha avuto il suo esordio? «Ammaniti, Aldo Nove ed io siamo già stati accusati, nei racconti che abbiamo pubblicato, di ripeterci, di essere diventati dei manieristi. Al contrario, c'è anche chi mi punta il dito contro perché ho abbandonato la mia profonda vena e non sono più lo stesso. Io faccio come Calvino e Perec che "percepivano" le profonde ragioni dell'opera, che seguivano lo stile che ogni testo impone al suo narratore. In altri termini: me ne frego». Mirella Serri