IL MIO PATTO CON LEVI di Lorenzo Mondo

IL MIO PATTO CON LEVI IL MIO PATTO CON LEVI » Giulio Einaudi ricorda l'intesa intellettuale, il lavoro editoriale e Uultima stretta di mano, due giorni prima che se ne andasse J. Turturro ne «La Tregua» ìtalo Calvino affascinalo dai racconti fantabiologici: «Il tuo meccanismo fantastico ha suggestione poetica, ti salvano il tuo garbo e il tuo umorismo» ìtalo Calvino affascinalo dai racconti fantabiologici: «Il tuo meccanismo fantastico ha suggestione poetica, ti salvano il tuo garbo N uno scritto di Primo Levi, si legge: «Se questo è un uomo è un libro di dimensioni modeste, ma, come un animale nomade, ormai da quarant'anni si lascia dietro una traccia lunga e intricata. Era stato pubblicato una prima volta nel 1947, in 2500 copie, che furono bene accolte dalla critica ma smerciate solo in parte: le 600 copie residue, riposte a Firenze in un magazzino di invenduti, vi annegarono nell'alluvione dell'autunno 1966. Dopo dieci anni di "morte apparente", ritornò alla vita quando lo accettò l'editore Einaudi, nel 1957». La prima edizione Einaudi di Se questo è un uomo verrà pubblicata nei «saggi» con una copertina astratta, con sbarre colorate orizzontali e verticali, che evocano la recinzione di un Lager. Due altri libri si riallacciano alla esperienze del Lager. Si tratta de La tregua, libro scritto con calcolata lentezza, un capitolo al mese, la sera, nel fine settimana o durante le vacanze, per non sottrarre neppure un'ora alla sua attività di direttore di una piccola industria chimica alla periferia di Torino, e di Se non ora, quando?, la più impegnativa impresa di Levi narratore, romanzo «fondato su tale impegno di documentazione da essere sostanzialmente vero pur senza riferirsi, punto per punto, a fatti noti», come ha avuto modo di osservare Cesare Segre, che altresì nota come gli itinerari percorsi e descritti da Levi ne La tregua si rassomigliano a quelli percorsi, combattendo, dal protagonista di Se non ora, quando? Un capitolo a sé, nella produzione letteraria e testimoniale di Levi, è dato dalle raccolte di racconti, a partire dalle Storie naturali, del 1966. Abbiamo la fortuna di avere, nell'archivio Einaudi, una lettera di Italo Calvino, cui Levi aveva inviato, sin dal 1961, alcuni racconti: «Ho letto - scrive Calvino a Levi in una lettera del 22 novembre 1961 ho letto finalmente i tuoi racconti. Quelli fantascientifici, o meglio, fantabiologici, mi attirano sempre. Il tuo meccanismo fantastico che scatta da un dato di partenza scientifico-genetico ha un potere di suggestione intellettuale e anche poetica, come lo hanno per me le divulgazioni genetiche e morfologiche di Jean Rostand. Il tuo umorismo e il tuo garbo ti salva molto bene dal pericolo di cadere in un livello di sottoletteratura, pericolo in cui incorre di solito chi si serve di stampi letterari per esperimenti intellettuali di questo tipo. Certe tue trovate sono di prim'ordine, come quella dell'assiriologo che decifra il mosaico delle tenie, e l'evocazione dell'origine dei centauri ha una sua forza poetica, una plausibilità che si impone... Insomma è una direzione in cui ti incoraggio a lavorare...». Levi segue il consiglio di Calvino, seguita a lavorare, rubando il tempo al sonno e agli svaghi, preoccu¬ pato dal salto troppo grosso, tra memorialistica e scrittura di invenzione, che gli si prospettava. Ultimata La tregua, ritorna alla stesura delle Storie naturali, che offre alla Einaudi mascherandosi sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Primo Levi dirà di aver scelto casualmente questo nome, corrispondente a quello di un esercente davanti alla cui bottega passava due volte al giorno per andare al lavoro. Più tardi accorgendosi che Malabaila significa «cattiva balia», dirà: «Ora mi pare che da molti dei miei racconti spiri un vago odore di latte girato a male». Due le opere di Levi che chiamerei storie di mestiere: Il sistema periodico, uscito nel 1975, e La chiave a stella, del 1978. Sul primo libro, abbiamo ancora una lettera di Calvino, del 12 ottobre 1974: «Ho guardato il Sistema periodico nuova stesura e mi pare che vada molto bene. Ho letto i nuovi capitoli, Ferro, Fosforo, Azoto, Uranio, Argento, Vanadio, che arricchiscono l'autobiografia chimica (e morale). Mettere Carbonio in fondo, facendogli simboleggiare l'esperienza dello scrittore è una buona idea. Ed essendo ora tutto l'impianto del libro più robusto, anche l'eterogeneità di Piombo e Mercurio (in corsivo) non turba l'insieme. Quanto ad Argon ho sempre le mie riserve sul fatto che sia in apertura (nonostante il suo valore di prologo) perché è il solo capitolo in cui l'elemento chimico sia metaforico; anche qui la difformità strutturale darebbe meno nell'occhio se il capitolo comparisse verso la metà del libro... Ma se i capitoli seguono un ordinamento anche per peso atomico... (con eccezioni mi pare) non parlo più». Dal Sistema periodico del 1975, alla Chiave a stella del 1978, storia di un operaio montatore piemontese che gira il mondo a costruire ponti e trivelle. Il romanzo rivendica al lavoro la sua validità morale, creativa espressione dell'individuo al massimo grado di libertà intellettuale. Qui Levi affronta la strada di narratore di storie. «Storie mie finché ne avevo nel sacco, poi storie d'altri, rubate, estorte o avute in dono, storie per aria, dipinte su un velo, purché un senso ce l'avessero per me, o potessero regalare al lettore un momento di stupore o di riso». C'è chi ha accostato il personaggio Faussone al Masino di Pavese o al Marcovaldo di Calvino. Nel primo caso per il linguaggio, nel secondo per l'ingenuità del protagonista. Ma Faussone, il personaggio di Levi - osserva Cesare Segre - offre, sia pure ingenuamente, «il gusto del lavoro svolto con cura, l'amore per l'attività che uno sceglie come propria; il compiacimento per una perfezione raggiunta»: il lavoro, così, secondo Levi, sarebbe «la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra». E ancora Segre: «Una regola per la felicità, da Levi, che di felicità naturalmente non parla molto». Ricordo con precisione due momenti della collaborazione di Primo Levi con la casa editrice: l'antologia personale La ricerca delle radici (1981) e la traduzione del Processo di Kafka (1983). Il primo (Jiulio Einaudi, editore di Primo Levi, ricorda iili incontri, /'amicizia, la collaborazione con lo scrittore di «Se questo è un uomo». ritratto qui sotto da Dariush. volume gli fu proposto nell'ambito di un progetto che doveva estendersi anche ad altri scrittori italiani: e Levi, indicando e documentando con una scelta di testi i propri autori preferiti, sentì di poter definire e rivendicare il proprio ruolo letterario: mostrava quale ampiezza di orizzonte di origini, secondo una definizione non strettamente estetica della letteratura, può abbracciare uno scrittore, quale individuazione egli possa raggiungere e contenere. La traduzione del Processo fu condotta con la precisione che distingueva Levi in qualsiasi rapporto e con la puntualità cronometrica con cui assolveva i suoi impegni. Un lavoro impegnativo e rischioso, che lo coinvolse profondamente, facendolo vivere a contatto ravvicinato in un testo saturo d'infelicità e di poesia, seguirne «al microscopio» il tessuto, restarvi «invischiato e coinvolto». Sono stato a trovare Primo, a casa sua, due giorni prima della sua morte. In quella occasione ho cercato di convincerlo a partecipare di più al nostro lavoro editoriale. Soprattutto era necessario che Levi uscisse dal ricordo di quel suo passato che lo stringeva alla gola. Lo agitava, in modo persistente, il timore di non esser più in grado di scrivere, di non essere ascoltato, il timore che l'ultimo suo messaggio, contenuto nei Sommersi e i salvati, potesse cadere nel vuoto. Da subito reagì positivamente alla mia proposta, e quando mi congedò accompagnandomi alla porta di casa, una stretta di mano, l'ultima, sancì il patto. Cosa avvenne, nelle ore seguenti, nel suo «animo schiacciato» non è dato sapere. DOPO LA TREGUA IL LUTTO DELLA VITA RIMO Levi scrive «La tregua» 14 anni dopo l'esordio di «Se questo è un uomo». E' confortato dal successo del primo libro recuperato nel 1956 da Einaudi, ha raggiunto una più matura coscienza dei suoi mezzi espressivi. Ed è lui stesso che confida a Philip Roth che cosa si proponesse tornando a narrare: «Volevo divertirmi scrivendo, e divertire i miei futuri lettori; perciò ho dato enfasi agli episodi più strani, più esotici, più allegri: soprattutto, ai russi visti da vicino. Ho relegato all'inizio e alla fine del libro i tratti (...) di lutto e di disperazione inconsolabile». Si tratta di «cose vere, ma filtrate». Ed è partendo di qui, da questa lucida coscienza autocritica, che occorre partire per individuare la sua strategia narrativa. Tutto comincia il 27 gennaio 1945, quando finisce «Se questo è un uomo» di cui «La tregua» rappresenta, a una prima, abbandonata lettura, il seguito testimoniale. Quel giorno i superstiti di Auschwitz assistono all'apparizione di quattro soldati russi a cavallo, che sono gli araldi della libertà ritrovata. Ma i quattro cavalleggeri, alla vista del campo, manifestano, insieme alla pietà, un «confuso ritegno». Sembrano anch'essi vulnerati, quasi intuissero, come gli scampati, che non c'è rimedio vero all'offesa: «Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l'anima di sommersi, le spegne e li rende abbietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti...». L'improvviso sconforto a tratti si attenua. Acca¬ de davanti al sonno regolare e tranquillo, «innocente», dei giovanissimi Charles e Arthur, che sono arrivati ad Auschwitz soltanto da un mese e non hanno avuto il tempo di corrompersi. O davanti al vecchio Thylle che, dopo anni di afasia, intona con voce chioccia l'Internazionale. Con un atteggiamento analogo a quello di Levi che, in «Se questo è un uomo», per darsi la forza di resistere, recita il canto dantesco di Ulisse («Fatti non foste a viver come bruti - ma per seguir virtute e conoscenza»). L'ambiguità della situazione e dei sentimenti appare con evidenza nella descrizione del disgelo che dovrebbe portare di per sé una idea di rigenerazione, di ricominciamento. Mentre qui si ri¬ solve in un fetido acquitrino di fango, immondizia e cadaveri, nel traffico pietoso e revulsivo degli improvvisati monatti. Neanche il bagno cui vengono avviati gli abitanti del Lager assume il senso di un salutare lavacro, per quanto diverso da quello imposto malignamente dai nazisti all'ingresso. E lo stesso accadrà con l'asettico, efficientistico trattamento degli americani al termine del libro. Ha qualcosa di mistificante, come l'imposizione di un nuovo modello, come la spogliazione dei residui, non tutti abominevoli, della vita di prima. La parola limbo, che ricorre almeno due volte nel testo, aiuta a definire uno stato di sospensione, di attesa indecisa ai margini del¬ l'inferno. Levi parla a un certo punto di «atmosfera di purgatorio, piena di sofferenze passate e presenti, di speranze e di pietà», intrisa di nostalgia (altra parola ricorrente). E' inevitabile avvertire, tenendo conto dei precedenti di «Se questo è un uomo», una vivida eco dantesca, un senso appunto di purgatorio, che tuttavia si disperde e svanisce, lasciando una impressione di immedicabile malinconia. Non c'è nella «Tregua» una precisa partizione, una riproposta, nell'ordine della libertà e del bene, dei gironi infernali. E manca la certezza dell'ascesa. L'inferno ha lasciato il posto a una specie di caos primigenio. Come si esce da Auschwitz, il racconto tende a riassorbire, insie¬ me alle suggestioni dantesche, ogni impronta simbolica per virare nel picaresco, con quel tanto di comicità che il genere comporta. Paradossalmente la tregua, intesa come «mia parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino», si esaurisce con il ritorno a casa, agli affetti famigliari e alla vita civile. Alla fine del libro, come Levi si era proposto ed aveva sperimentato, riemergono il lutto e la «disperazione mconsolabile». Siamo alla pagina bellissima del sogno dentro il sogno, di quando il sopravvissuto si sente rivisitato dalla voce dell'aguzzino che ripete la parola Wstawac, alzarsi. E' il saluto crudele che confisca e ottenebra la luce dell'al¬ ba. E l'alba del Lager finisce col proiettarsi, per contiguità, nell'alba della libertà ritrovata. Lo aveva detto, l'ebreo di Salonicco, contrastando l'illuministica fiducia di Levi, che il Lager «è una triste conferma di cose notorie. "Guerra è sempre", l'uomo è lupo all'uomo: vecchia storia». A questo turbamento, Primo Levi oppone la cenciosa e insieme miracolosa parentesi della «Tregua». Che non sarà la sola, nella sua vicenda di uomo e di scrittore. Perché fino all'ultimo non rinuncerà ad aprire parentesi, ad opporre una lotta generosa e impavida contro i tentacoli del male, contro il sonno della ragione. Lorenzo Mondo

Luoghi citati: Argon, Firenze, Salonicco, Torino