Un Paese malato di amnesie di Francesco La Licata

Un Paese malato di amnesie La figura del magistrato sembra essere evocata solo in questa scadenza Un Paese malato di amnesie CINQUE anni fa Giovanni Falcone veniva assassinato dal tritolo di Cosa nostra, sistemato da alcuni ben individuati artificieri per conto di non meglio definiti committenti. Una strage che sarebbe stata seguita - di lì a poco - dalla mattanza di luglio che si è portata via l'altro pilastro della lotta alla mafia: il procuratore Paolo Borsellino. Sono passati cinque anni, è successo ieri. E invece quella del '92 sembra preistoria. Brutta cosa la memoria, ma peggio è l'assenza di memoria, malattia abbastanza diffusa nel nostro Paese. La strage di Capaci sembra non essere neppure un ricordo, nel senso che torna al centro dell'attenzione nell'immediatezza della scadenza, per essere velocemente metabolizzata in una liturgia ormai codificata nella routine. Non è questa l'eredità di Falcone, uomo distante dalla banalità e dalla retorica. Badava alla sostanza, il giudice. Fino a preferire di sacrificare il risultato completo, a vantaggio di un successo parziale ma sicuro. Basti pensare all'esito del suo maxiprocesso, reso possibile forse soprattutto da una rinuncia: quella di mettere insieme «coppole storte» e maggiorenti della politica. Capiva, Falcone, che i veleni della polemica partitica avrebbero contaminato l'inchiesta, rendendole il fiato corto a vantaggio dei padrini che si sarebbero fatti scudo dei potenti, aggrappandosi al salvagente collettivo delle protezioni e delle immunità parlamentari. Tanta limgimiranza non sembra affacciarsi oggi all'orizzonte. Capaci? Deve esserci qualcosa che non funziona, se sui giornali il ricordo di Falcone è arrivato attraverso una povera querelle sul poco determinante dubbio se il concerto organizzato dalla «Fondazione Francesca Morvillo e Giovanni Falcone» sia fallito per diserzione di cantanti con scarsa passione civile o per incapacità organizzativa della fondazione. Che sarebbe stato della memoria collettiva di Capaci, se non ci fosse stata la coincidenza con la requisitoria di ieri? Ecco, è il lavoro di ogni giorno, anche quello poco appariscente, che deve alimentare la memoria di noi tutti. La lotta alla mafia è un fatto concreto e quotidiano, non può essere il tourbillon delle dichiarazioni e delle smentite, delle accuse e delle giustificazioni. Non può essere il vaniloquio o - peggio - l'argomentazione interessata e strumentale. Sono passati cinque anni da quando Falcone è morto. E' lecito abbandonare la pista del dice dice fatuo e inconcludente? E' lecito chiedere e chiedersi un bilancio di questi 60 mesi? Non sembra un consuntivo particolarmente ricco. Ci sono momenti in cui lo stato del dibattito langue su posizioni ed argomenti collocabili al periodo «prefalconiano». Come non accostare lo sdegno e l'esecrazione odierni verso i «giudici protagonisti», con le «estati dei veleni palermitani», quando Falcone doveva giustificare - anche nelle austere sedi istituzionali - la propria concezione della lotta alla mafia, di fronte a tecnici che non distinguevano un mafioso da uno scippatore? A tratti si ha l'impressione che Falcone, con le sue intuizioni, il suo lavoro rigoroso, non sia mai esistito. E' necessario entrare nel dettaglio delle défaillances? Dobbiamo sottolineare l'infelice coincidenza temporale della riforma dell'art. 513 (cioè la giusta necessità che i collaboratori vengano in aula a confermare le testimonianze rese a verbale) con il clima di incertezza che vivono i pentiti (perciò più esposti ai colpi di testa), molti addirittura espulsi dal programma di protezione non per motivi disciplinari ma per semplice esigenza di sfoltimento? Voleva questo Falcone? Qualcuno anche stavolta forse risponderà per conto del giudice morto. Tanto, ormai tutti lo citano. Anche quelli che un tempo lo vedevano come il diavolo. Francesco La Licata

Persone citate: Falcone, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino

Luoghi citati: Capaci, Falcone