Politica e industria divise da un abisso: il tempo

Politica e industria divise da un abisso: il tempo Politica e industria divise da un abisso: il tempo ANALISI LE REAZIONI DELL'IMPRESA PROMA OCO dopo le 11, mentre le agenzie «battevano» i primi lanci di un sondaggio Swg secondo il quale 53 veneti su 100 chiedono «pene miti» contro i secessionisti che il 9 maggio scorso occuparono il campanile di San Marco, qualche scheggia di «serenissimo governo-ombra confindustriale» entrava in azione anche nell'auditorium romano di viale Astronomia, all'Eur. All'assemblea annuale degli imprenditori italiani, per ben due volte nel corso dell'intervento di Pierluigi Bersani, e una volta anche durante il breve saluto di Prodi, dall'agguerrita platea di grisaglie e tailleur partivano salve di fischi e di fragorosi mugugni. Roba già vista e sentita nelle piazze telematiche di Lerner e Santoro, o nei più ruspanti convegni della Confcommercio. Mai in un'assemblea della Confindustria. Eppure - senza esagerarne la portata, per carità - quei fischi e quei mugugni erano l'archetipo di un tessuto produttivo sofferente, insofferente e ormai sempre più conflittuale. Non per scelta o per calcolo, ma quasi per istinto di conservazione. C'era molto Nord e soprattutto molto Nord-Est, fisico o simbolico, in quei fischi e quei mugugni: per dire di una zona geografica e una categoria sociale (la cosiddetta borghesia produttiva) ancora irrisolta, che più di ogni altra sta subendo le aggressioni della globalizzazione e lo spettro di una inesorabile perdita di competitività che nasce dalla stagnazione economica, dalle politiche di bilancio restrittive, dalle oppressioni della macchina fiscale e amministrativa, dalle rigidità del mercato dei fattori della produzione, capitale e lavoro. Giorgio Fossa, leader di questa Confindustria dei giovani e dei piccoli, con la sua relazione è riuscito nel difficile esercizio di ricompattare la base, barricadera e affetta in qualche caso da «sindrome veneta», con il vertice, votato a una linea più «moderata», che per questo lo aveva criticato in direttivo dopo l'attacco frontale al governo nelle assise generali del 10 aprile. Ai «grandi», col suo testo, ha assicurato un profilo alto, mai fuori dalle righe, teso a tenere aperta la porta del dialogo col governo, cui ha tributato persino qualche apprezzamento sugli «importanti passi verso il risanamento», su quel «qualcosa che si sta muovendo sul fronte delle banche pubbliche, sulle leggi Bassanini». E non a caso Marco Tronchetti Provera, dopo la kermesse pubblica, aveva aperto i lavori riservati dell'assemblea con un liberatorio: «Io direi di fare un bell'applauso al presidente, per la sua bellissima ed efficace relazione...». Ma ai «piccoli» ha offerto comunque la consueta linea «dura e pura», pur senza far mai traboccare oltre i limiti il disagio. Certo, rispetto a quel «se non cambiate il Paese vi spazzerà via» di qualche mese fa, rispetto a quelle bordate di Tronchetti contro «la cultura catto-comunista che ancora domina la classe dirigente», il clima è un po' meno aspro, il frasario un po' meno velenoso. Ma le distanze tra i due mondi, l'Impresa e la Politica, la Confindustria e l'Ulivo, quelle restano tutte. E ieri, a marcarle, è stato il duetto quasi bergsoniano tra Fossa e Prodi sul problema del «tempo»: sugli impegni per Maastricht, sul risanamento dei conti pubblici, sul Dpef, sulla riforma dello Stato Sociale. Di fronte a queste scelte - esortava il leader degli industriali - «restano pochi mesi, forse alcune settimane». Il premier accettava tutto, anche le critiche sui programmi e le formule. Ma sul tempo no. Sul tempo chiedeva a Fossa mano libera. Per non finire come Chirac e Kohl, perché «per queste grandi tra¬ sformazioni dello Stato Sociale occorrono tempo e consenso». Qui è l'abisso, che si apre tra la Politica e l'Impresa. Qui è la cesura «culturale»: da un lato i governanti che tentano di negoziare scelte dolorose senza scontentare nessuno e quindi si costringono a procedere «adagio, adagio» come ripete spesso il premier. Dall'altro lato gli industriali, che invocano da mesi e con urgenza la deregulation normativa, il decentramento amministrativo, un fisco per lo sviluppo, le privatizzazioni e le liberalizzazioni, i tagli strutturali alla spesa pubblica e la riforma del Welfare State. Sarà pure il deprecato «tutto e subito» di cui parlava ieri il ministro Visco, ma proprio questo è il punto: la fretta non è un vezzo di Fossa o dei tanti piccoli «serenissimi» Brambilla che ieri fischiavano e mugugnavano. Gli industriali non sono il «partito della spesa e della svalutazione», e soprattutto hanno capito che l'ingresso dell'Italia nell'Unione monetaria è davvero una partita irrinunciabile. «Anche Ciampi confidava Fossa in serata - me ne ha dato atto alla fine dell'assemblea». «Spero che dall'esito delle elezioni in Francia non vengano battute d'arresto aggiungeva l'Avvocato Agnelli - perché Mastricht è l'unica arma che l'Europa ha per recuperare competitività». Basta leggere l'ultimo «rapporto sulla competizione globale» del World Economie Forum, pubblicato l'altro ieri suìl'Herald Tribune, per capire qual è la posta in palio: nel '97 nella Top Ten della competitività mondiale svetta Singapore, seguita da Hong Kong, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Taiwan e Malaysia. Gli unici Paesi europei riusciti a tenere il passo con le tigri asiatiche e gli Usa sono stati la Gran Bretagna e l'Olanda, i soli nel Vecchio Continente ad aver elimi- nato «le rigidità del mercato del lavoro, i deficit fiscali troppo elevati e i generosi e troppo costosi programmi di Welfare». La grande Germania è al ventisettesimo posto, l'Italia dopo il cinquantesimo. Diceva bene Luigi Orlando, industriale schivo della vecchia guardia: «Io sono grande in Italia, ma sono piccolo in Europa, e piccolissimo nel mondo...». Ecco perché Maastricht non si può perdere, ed ecco perché il «tempo» della Politica rischia di non coincidere con quello dell'Impresa. C'è di mezzo Bertinotti, ed è per questo che Fossa, ieri, non esitava nuovamente a puntare il dito contro «le minoranze che esercitano un vero e proprio diritto di veto e operano contemporaneamente come partito di lotta e di governo». Si arrabbiava D'Alema, si arrabbiavano Micheli e Mussi, per questa ennesima «invasione di campo», che chissà, magari nasconde il solito turpe disegno dei Poteri Forti, le «larghe intese», o peggio il «ribaltone». E invece no: anche qui, è solo insofferenza - magari «protestataria» come denunciava il leader del pds - verso certa politiquepoliticienne che spreca tempo e denaro, e rischia di lasciarci nell'anticamera di Maastricht. Anche qui, istinto di conservazione. E magari anche un pizzico di istinto di sopravvivenza, visto che comunque Bertinotti ripete dall'estate dell'anno scorso che «la Confindustria è il nemico da battere». Fossa l'aveva scritto, a Prodi, a D'Alema, ai presidenti di Camera e Senato, in una lettera datata 19 luglio del '96: «L'onorevole Bertinotti lascia intendere che i futuri provvedimenti del governo saranno mirati "contro" le imprese e "contro" la Confindustria e si pone scorrettamente, utilizzando la forza parlamentare del suo partito, in diretta competizione con il sindacato, che è la controparte naturale delle imprese. Siamo molto preoccupati...». Finora, i fatti hanno legittimato quella preoccupazione. Prodi - se davvero come ha detto ieri vuol «contare su di loro», e vuole evitare di ritrovarseli un giorno ad occupare qualche campanile - deve dimostrargli il contrario. Altrimenti verranno altri fischi e altri mugugni. «Che non sono una bella cosa - ammetteva alla fine Fossa - Ma insomma, anche noi siamo uno specchio di questo paese». Massimo Giannini Agnelli: «Spero che dal voto francese non arrivino frenate Maastricht è l'unica via perché l'Europa riprenda competitività» Fossa: «brutta cosa» i fischi a Prodi ma anche noi rispecchiamo il Paes Ma il vertice degli imprenditori ammette : c'è qualche passo avanti Nella foto grande il ministro Ciampi, Massimo D'Alema e il presidente della Fiat Romiti all'assemblea della Confthdustria Nella foto piccola il ministro del Lavoro Tiziano Treu