L'Armota rimane in carcere

Subito rinviato il processo per l'assalto a San Marco. Un avvocato: «Mi piace l'accento veneto del giudice» Subito rinviato il processo per l'assalto a San Marco. Un avvocato: «Mi piace l'accento veneto del giudice» 1/Armotq rimane in carcere Erano pronti finanziamenti dal Brasile VENEZIA DAL NOSTRO INVIATO Quando il giudice Graziana Campanato fa l'appello degli otto Serenissimi imputati, loro abbassano lo sguardo e fanno sì con la testa. Senza dire una parola, senza leggere proclami, senza dichiararsi prigionieri politici come ha fatto Moreno Menini in cella. Qui nell'aula bunker sfoglia il codice e con il suo avvocato accanto fa i conti, lui che ha 20 anni e che rischia di passarne altrettanti in carcere. Sono in maglietta, camicie sgargianti, tute da ginnastica come Fausto Faccia che era il capo militare del commando e chiamavano «Boss» e che adesso sta seduto buono buono, gli agenti della polizia penitenziaria accanto. Lontani che quasi non li vedono, le mogli e i figli e gli amici più stretti che arrivano da Padova, da Verona, da Treviso, da paesi come Casale di Scodosia e Colognola ai Colli. «Speriamo che adesso li lascino liberi», è il sogno di tutti. «Hanno sbagliato a portare il mitra, ma non l'hanno usato. Non volevano fare del male a nessuno», dice un parente, giubbotto verde, jeans, che si sbraccia per salutare Luca Peroni, nome in codice «Pasque», uno degli imputati. Paolo Tebaldi, il difensore di Menini, interpreta quella speranza e chiede che siano mandati almeno agli arresti domiciliari «che tanto in faccia adesso li conoscono tutti e di fatto sono impediti dal compiere altre azioni». Parte l'applauso, quando l'avvocato evoca «assassini, responsabili di fatti gravissimi già in libertà». Parte dalle fila dei parenti, stretti tra le telecamere in fondo e i carabinieri davanti che li guardano e non muovono un dito. H giudice Campanato invita al silenzio «se no faccio sgomberare l'aula». Obbediscono. «Mi piace l'accento veneto di questo giudice. Quando i giudici sono padani è meglio, possono capire lo spirito e la cultura delle persone sotto processo», si agrappa a quel che può Luciano Gasperini, avvocato e senatore della Lega, difensore di Flavio Contin e di suo nipote Cristian, quello che stava dentro al blindato in piazza San Marco, passamontagna in testa. «Gli imputati devono rimanere in carcere, c'è il pericolo di inquinamento delle prove e quello di fuga insito nella gravità dei reati commessi», taglia corto il pm Rita Ugolini. Ma poi con i cronisti ammette: «Tra loro ho colto incertezza, imbarazzo ma non pentimento. La cosa più preoccupante è il consenso che li circonda. Vuol dire che quello di San Marco può non essere un caso isolato». Trenta parenti e dieci della Life, il movimento che vuole la liberazione fiscale e che ha già raccolto 25 milioni per le spese legali degli imputati, è tutto il consenso che si vede in quest'aula bunker alla periferia di Mestre. Fabio Padovan, il capo della Life, non ha mezzi termini: «Ci batteremo perché questi veneti siano liberati quanto prima. Il Veneto ha rialzato la testa». Ed è sempre lui che, seguito da dieci, batte le mani e grida «Veneti, Uberi, Veneti, liberi», quando il giudice Grazia Campanato dice che gli otto imputati non possono essere scarcerati, e nemmeno andare agli arresti domiciliari. «Emergono chiari motivi: c'è il rischio di reiterazione dei reati, se rimessi in libertà. Non sono idonei anche gli arresti dorniciliari, gli imputati potrebbero mettersi in contatto tra loro», chiude ogni speranza il giudice. C'è chi grida «in Calabria», Chi urla «a casa». Chi alza la voce e fa «vergogna». Ma non dura un minuto, che la protesta è già finita, con il fervorino del giudice che sembra quasi un consiglio: «Non è il modo migliore per sostenere i vostri parenti». La più accondiscendente è il pubblico ministero Rita Ugolini: «Ma sì, me la aspettavo questa reazione...». Eppure non vola una mosca per quei sette minuti in cui questa signora veneziana, dicono dal carattere forte, snocciola capi d'accusa e imputazioni. «Associazione sovversiva, banda armata, eversione dell'ordine democratico...», elenca, per anni e anni di carcere. Poi ricostruisce con linguaggio giuridico quel 9 maggio, nel cuore di Venezia: «Commettendo reato per aver innalzato la bandiera di San Marco, proclamando quindi la liberazione di piazza San Marco dallo Stato italiano». E la vicenda non è finita. C'è l'inchiesta veronese di Guido Papalia, che guarda ai simpatizzanti (da ieri si fanno accertamenti su altre sette persone) ai fondi del gruppo che sognava di lanciare messaggi su Internet, che aveva conti in Austria e che in Brasile aveva trovato 350 imprenditori pronti a finanziarli. E che sognava di fare un referendum popolare per l'autonomia. Alle 11 e 20 è tutto finito. Il giudice concede i termini a difesa chiesti dagli avvocati. Si riprenderà il 3 giugno. Fuori dall'aula bunker rimangono in venti ad aspettare i blindati, quelli veri, dei carabinieri, che riportano a Padova, Venezia e Treviso gli otto detenuti. Qualcuno applaude, passa un fuoristrada con la bandiera della Serenissima. Lo segue una Opel targata Verona. Dietro c'è la moglie di Luca Peroni che piange. Fabio Potetti Si allunga ancora l'elenco degli indagati. Dai documenti sequestrati emerge che il gruppo voleva un referendum popolare per ottenere l'autonomia Viviani: «Sembra di essere in una gabbia di matti» Peroni: «La gente è con noi Voglio ringraziare tutti quelli che ci hanno appoggiato»