Il «mea culpa» del commando di Fabio Poletti

Il «meo culpa» del commendo Il «meo culpa» del commendo Dal carcere: forse abbiamo esagerato VERONA DAL NOSTRO INVIATO «Non sono un moderato, ma prima facciamo la Padania, come dice Bossi, poi pensiamo all'indipendenza del Veneto», prende le misure Maurizio Grassi, consigliere comunale della Lega a Verona, la notte scorsa gli agenti della Digos in casa alla ricerca di un legame con la Serenissima Armata. «Mi hanno portato via tutto, i floppy, anche i libri sulla storia della Repubblica Serenissima, ma non hanno trovato niente di quello che cercavano», spiega accanto al banchetto della Lega in piazza Bra. A un passo dai turisti che girano attorno all'Arena, attratti dai due vessilli, il Sole padano e l'onnipresente Leone di San Marco «con la spada in mano anziché il Vangelo, che si usa solo nei momenti di pace». Dopo averla sfiorata mille volte, l'inchiesta del pm veronese Guido Papalia arriva sulla Lega, quella ufficiale di Umberto Bossi e della Padania. Due le perquisizioni, oltre a Grassi nel mirino della Digos è Finito Guglielmo Carnovelli, consigliere del Carroccio a San Bonifacio. Altre trénta perquisizioni hanno riguardato presunti simpatiz¬ zanti del Governo serenissimo. ((Abbiamo trovato materiale abbastanza interessante», taglia corto il pm Guido Papalia, che non vuole scoprire le sue carte. «Ma la Lega non c'entra, ha sempre agito alla luce del sole», rincara la dose Fabrizio Comencini, segretario del Carroccio per il Veneto. Ma poi ammette: «Per espellere un leghista coinvolto in quelle faccende devono dimostrare, con una sentenza definitiva, di aver occultato armi o tramato per uccidere qualcuno». «Ma noi non volevamo fare male a una mosca», gioca al ribasso Antonio Barison, uno degli otto arrestati dai Gis dopo l'assalto al campanile di piazza San Marco. Barison è detenuto a Venezia, aspetta il processo per direttissima in corte d'assise di mercoledì prossimo e non si fa illusioni. «Sappiamo che non avremo sconti, questo è uno Stato forte con i deboli e debole con i forti», spiega al parlamentare di An Gustavo Selva, che lo ha incontrato in carcere. «Eravamo stufi di parole. Io sono un poveruomo, ho lavorato otto anni da un benzinaio e non ho una lira. Altro che NordEst... Sapevamo che la nostra protesta anche se legittima sarebbe stata un po' esage¬ rata. Ma non immaginavamo certo di commettere tutti quei reati», giura lui, cinque figli a casa nel Padovano, sulla testa un'accusa da ergastolo. «Ma tutti si aspettano clemenza e assicurano di non aver nessuno alle spalle», racconta Selva. E tira le conclusioni: «Se viene da loro il pericolo per la democrazia...». Tutt'altra idea hanno Guido Papalia e la sua collega veneziana Rita Ugolini, che ancora ieri hanno tentato una nuova tornata di interrogatori. Cristian Contin, ventitré anni, di Urbana, detenuto a Treviso', si è limitato a ripetere: «Sono un prigioniero politico. Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Lapidario anche il suo difensore, Luciano Gasperini: «Mercoledì ci sarà il processo. Solo allora verranno spiegate davanti al popolo le ragioni e gli ideali alla base di quel gesto». Detenuto politico si è dichiarato pure Gilberto Buson, operaio a Cartura in provincia di Padova. La perizia medica voluta dalla procura conferma che nell'assalto dei Gis dei carabinieri in piazza San Marco è stato picchiato provocandogli «un trauma contusivo con perforazione del timpano dell'orecchio destro». Altri tre detenuti, interro¬ gati da Papalia e Ugolini, hanno invece fatto qualche ammissione. Si tratta di Fausto Faccia, a capo del commando Serenissimo, Antonio Barison e Andrea Viviani. Quest'ultimo ha parlato per oltre un'ora con i magistrati, il verbale è stato segretato. «Non avremmo mai usato né il blindato né il mitra Mah», ha fatto mettere a verbale il giovane di Colognola ai Colli. E ancora: «Faccio parte dell'Armata Veneta Serenissima, ma ho ruoli solo marginali, siamo secessionisti, ci finanziamo con l'autotassazione. Volevamo solo dare una dimostrazione di forza». Stessa idea di un gruppo di coltivatori di fragole che ieri alle 10,30 è salito sulla torre dei Lamberti in piazza delle Erbe, nel cuore di Verona. Dalla cima hanno steso tre striscioni: «Italia matrigna», «Lavorare è reato», ((La rivolta delle fragole». Due auto della polizia si sono fermate sul posto, mentre veronesi e turisti guardavano l'ennesima protesta dei fragolari, che vogliono una burocrazia più agile per assumere lavoratori stagionali extracomunitari. All'arrivo del prefetto il gruppo è sceso dalla torre e gli ha consegnato - ben ripiegato - il tricolore. Fabio Poletti Nella foto grande una fase dell'assalto in piazza San Marco Accanto il procuratore di Verona Guido Papalia