La festa dopo la grande fuga

La festa dopo la grande fuga PAGINA La festa dopo la grande fuga Migliaia di soldati gettano le divise KINSHASA DAL NOSTRO INVIATO Kinshasa è caduta nelle mani del nuovo potere senza nemmeno tentare una resistenza. Si è consegnata come una città aperta, priva di difese, abbandonata al proprio destino dalla fuga ignonùniosa dell'antico regime. Sono scappati tutti, generali, ministri, consiglieri, fratelli e cognati, saltando a bordo di un grosso motoscafo e passando a Brazzaville, dall'altra parte del fiume; trascinavano valigie enormi, pesanti, che dovevano contenere la storia consistente degli affari di una cricca che ha vissuto soltanto di corruzione. E su questa sponda lasciavano un esercito privo di comandi, disfatto dal marasma del crollo, perduto dalla consapevolezza che un tempo si era chiuso per sempre. Come in un 8 settembre africano, ieri migliaia di soldati hanno abbandonato nella polvere le loro uniformi e si sono travestiti di panni borghesi, perdendosi nelle strade vuote di Kmshasa. Li abbiamo visti allontanarsi verso un destino incerto, difficile, che attende ora il tempo della vendetta. Portavano ancora il fucile, ma la strada che avevano di fronte è lunga, e il fucile alla fine sarà un peso inutile. La caduta di Kinshasa è cominciata alle 2 della notte di ieri, quando il capo di Stato maggiore, il generale Mahele, che tentava di opporsi al saccheggio della città da parte della soldataglia del regime, è stato ammazzato. Con quei colpi tirati a bruciapelo, che facevano fuori uno dei più convinti sostenitori della necessità di un compromesso con Kabila, si rompeva il difficile equilibrio che aveva seguito la fuga del vecchio presidente; e il regime si perdeva nello sbando. L'Intercontinental, che in questi giorni di terrore era diventato il rifugio di tutti i dignitari del potere mobutista, si accendeva di luci e di ordini improvvisi. Sgommando ferocemente, arrivavano camionette, plotoni di soldati, piccoli cortei di pretoriani armati più di Rambo. E cominciava un affannato trasloco: la famiglia di Maele, quella del primo ministro Likulia, altre quattro o cinque famiglie dei vip più altolocati, scendevano con bambini e bagagli nella hall presidiata quanto una Casa Bianca, e partivano velocemente nella notte. Si univa a loro anche Kongolo, il figlio-gangster di Mobutu, che aveva assunto provvisoriamente il comando della guardia presidenziale dopo che il generale Nzili se l'era squagliata verso Brazzaville. Nessuno aveva pagato il conto dell'albergo. Si ripetevano pagine della storia già consumata in altre latitudini, Qui, di diverso, c'era un'aria più torbida, un'atmosfera che non riusciva a nascondere dietro la fine di un corso politico lo squallore e le miserie di traffici fatti di puro sfruttamento del potere. I bimbi piangevano, le donne avevano il volto disfatto della notte e una paura senza più dignità. Erano ormai le sei del mattino, quando il generale Likulia faceva comunicare a tutti i comandi delle forze armate l'ordine di ritirarsi nelle caserme e di non opporre resistenza. Era una resa senza condizioni. Un esercito che era stato potente, e temuto, cedeva senza nemmeno sparare un colpo. La ribellione cominciata a ottobre in una lontana periferia di quest'immenso Paese, aveva ormai terminato il suo cammino. E a quella prima ora dell'alba finiva davvero il lungo regno di Mobutu. Likulia spariva dalla circolazione, in fuga verso Brazzaville. E da ogni parte della città cominciava la ritirata dei reggimenti verso i campi militari. Ancora alle due del pomeriggio ho incontrato lungo la strada principale di Kinshasa una colonna di 220 uomini delle Guardie presidenziali: erano le truppe che avevano difeso l'aeroporto, stavano marciando da sei ore sotto il sole torrido. E avevano perduto gran parte della loro ben nota ferocia. Mostravano i denti, puntavano le armi, ma in realtà nascondevano sor prattutto la paura; e hanno accettato subito la mano tesa nel saluto. Il maggiore Mngala ha chiesto «qualche sorso d'acqua» per i suoi uomini; la divisa era ancora in ordine, sorrideva triste. Quando ha capito che non poteva trovare nemmeno una bottiglia, si è stretto nelle spalle e ha ordinato ai suoi soldati la ripresa della marcia. «Ora dove va, maggiore?», gli ho chiesto. Ha risposto che non lo sapeva. Con la mano ha indicato la strada vuota che si allungava a Occidente, e ha detto: «Laggiù, da qualche parte». Probabilmente starà scappando verso Matadi, o nella foresta doll'Angola. Si sono allontanati in una lunga fila sotto il sole, trascinando stancamente i loro passi; non erano più i torturatori feroci di Mobutu. Erano uomini perduti, li accompagnava il fantasma della morte. A quella stessa ora, le avanguardie di Kabila erano già alle porte di Kishasa, a Oriente, dalla parte opposta della città. Arrivavano su due colonne, marciando piano, come chi ha vinto ma entra in un territorio ancora difficile. Il loro passo era comunque forte, le armi al braccio, le uniformi tutte in ordine; molti avevano, con lo zaino, anche una pentola. Loro vincevano, Mngala aveva perso. Erano 1500 uomini, preceduti da un paio di camionette che scandagliavano rapidamente i quartieri da attraversare. La città attorno a loro era completamento deserta. Immobile. Hanno occupato subito la radio «Voix du Zaire» e il faraonico edili - ciò del Parlamento; poi hanno proseguito l'avanzata. Ma senza fretta, cauti, attenti ai tiri che si sentivano arrivare da lontano. In città, infatti, si stava sparando da ogni parte, nel tentativo di bloccare i saccheggi che partivano all'improvviso, come piccoli fuochi accesi dalla disperazione e da una violenza rabbiosa. Al calare della notte, quando il coprifuoco ha rispedito in casa anche chi si era azzardato a scendere nelle strade con bandiere e rami fioriti, per terra si contavano una cinquantina di morti. E i ribelli hanno preferito consolidare le posizioni, prima di allargare, oggi, a tutti i quartieri la conquista della città. Ma già nella mattinata, avuta notizia che le Guardie presidenziali avevano abbandonato l'aeroporto, Kabila, il trionfatore, lanciava dal suo quartier generale di Lubumbashi il bollettino della vittoria: comunicava al mondo la conquista di Kinshasa, assumeva i poteri di Capo dello Stato, chiamava il nuovo Paese Repubblica Democratica del Congo. Faceva anche sapere che entro 72 ore nominerà un governo di salvezza nazionale, e che entro 90 giorni un'Assemblea Costituzionale sceglierà la nuova forma dello Stato. Chi starà dentro quel governo, e come sarà formata quest'Assemblea, resta ancora un mistero; ma sulla soluzione di questo mistero si misurerà la credibilità del nuovo regime. Lo Zaire non esiste più, il nuovo Congo è un Paese sfiduciato, senza più anima né forza, che apre le braccia al desiderio vitale del cambiamento. Su questo cambiamento proietta oggi tutte le speranze e le illusioni tenute soffocate per 32 anni; e si consegna al nuovo padrone a mani aperte, forte soltanto della propria disperazione. Ora arriva il tempo della politica. Ma nella notte di Kinshasa i fucili hanno ripreso a sparare, la vendetta sarà lunga. Il sangue dell'Africa è sempre rosso. Mimmo Candito Mobutu in Marocco e poi in Liechtenstein Ultimatum agli ultimi lealisti Nella notte le uria di gioia e le raffiche delle vendette private 30 giugno 1960. Il Congo belga diventa indipendente; 15 maggio 1961. Il nuovo Stato assume il nome di «Repubblica federale del Congo». Presidente Joseph Kasavubu, capo del governo Patrice Lumumba. 24 novembre 1965. Mobutu assume il potere con un colpo di Stato e si autoproclama presidente della «Repubblica democratica del Congo»^ Giugno 1966. La capitole Léopoldville cambia nome e diventa Kinshasa. 27 ottobre 1971. La «Repubblica democratica del Congo» diventa «Repubblica dello Zaire». Il fiume Congo prende il nome di Zaire. Agosto 1996. Il Parlamento di transizione prevede l'istituzione di una «Repubblica federale del Congo» in sostituzione della «Repubblica dello Zaire». Maggio 1997. Due Paesi si chiameranno d'ora in poi Congo: l'ex Zaire, che diviene «Repubblica democratica del Congo» e la «Repubblica del Congo», ex colonia francese.

Persone citate: Joseph Kasavubu, Kabila, Mimmo Candito, Patrice Lumumba, Rambo