IL TRAMONTO DELLO STATO di Barbara Spinelli
IL TRAMONTO DELLO STATO IL TRAMONTO DELLO STATO SONO passati solo nove giorni dall'assalto dei separatisti veneti a piazza San Marco, e già la loro azione suscita una certa diffusa simpatia, un certo diffuso e segreto senso di rivincita, di riscatto. Simpatizzano non pochi vescovi locali, che conoscono assai bene gli umori e le febbri impazienti dei propri parrocchiani: Ferdinando Camon ha spiegato lucidamente, su questo giornale, la vocazione delle diocesi veneto-friulane a rappresentare non tanto una società nazionale, quanto le microcomunità, le frazioni, i quartieri d'una regione delimitata. Simpatizzano numerosi imprenditori di questo Nord-Est che è al tempo stesso risentito, solitario, e ricco. Simpatizzano infine politici o intellettuali che sognano un capitalismo finalmente libero, non più prigioniero d'uno Stato-nazione descritto come vecchio, accentratore, giacobino. Tutte queste insofferenze e queste segrete simpatie stanno venendo alla luce negli ultimi giorni, ed è segno che non è semplicemente follia quella che ha mosso gli assaltatori di San Marco. Che non è solo caricatura, maschera. E' qualcosa di più profondo, che mette in causa il concetto classico di nazione e la stessa forma Stato che la nazione si è data. E' un fenomeno che nasce da antiche diffidenze italiane verso lo Stato - diffidenze cattoliche, comunali, o marxiste - ma è anche figlio ipermoderno dei tempi mondializzati, postnazionali, postpolitici, che non solo il nostro Paese sta traversando. La mondializzazione delle economie spezza il vecchio legame tra Stati e rispettivi territori, infrange l'idea di frontiera, corrode le singole sovranità, le singole competenze dei governi nazionali, e per forza di cose tende a secernere il bisogno di identità sostitutive, di surrogati di frontiere e micropatrie. Anche se completamente fittizie, immaginarie, le microfrontiere sono invocate per dare protezione agli sperduti, e per facilitare simultaneamente l'immersione nella nuova Heimatlosigkeit, nell'Assenza di patria e di radici che Heidegger a suo tempo descrisse e che la mondializzazione sembra minacciare, o promettere. La piccola patria sostitutiva può avere una storia vetusta, come in Catalogna oppure in Scozia. Può essere espressione di diaspore etniche, come nel Quebec francese o nelle comunità afro-americane degli Stati Uniti. Può anche sorgere nelle vesti di immagini puramente virtuali, come accade per la Padania di Bossi. In ogni caso è il tentativo di riempire un vuoto, di rimediare a una latitanza. In ogni caso è il sintomo di una malattia reale, che non è facile curare né con la retorica consueta dell'unità nazionale, né con gli appelli a una storia rammemorata in comune. Massimo Cacciari dice giustamente che la mondializzazione «genera mostri»: mostri che conviene addomesticare con politiche adeguate, federaliste e decentralizzate. Ma forse neppure questo è sufficiente. Forse siamo di fronte a una più radicale mutazione, che mette in causa e delegittima non tanto lo Stato giacobino e accentratore nato dalla Rivoluzione francese, ma la forma stessa dello Stato e della nazione che gli europei hanno escogitato tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, per uscire dal Medio Evo. Forse è la medievale idea dell'impero che sta facendo ritorno, nelle vesti non più di astrazione cristiana come ai tempi feudali ma di astrazione profana, economico-tecnologica. La mondializ- Barbara Spinelli CONTINUA A PAG. 2 PRIMA COLONNA
Persone citate: Bossi, Ferdinando Camon, Heidegger, Massimo Cacciari
Luoghi citati: Catalogna, Scozia, Stati Uniti
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