«Fatemi uscire, in cella soffoco»

«Fatemi uscire, in cella soffoco» Milano: Patrizia Reggiani racconta i suoi primi cento giorni dietro le sbarre «Fatemi uscire, in cella soffoco» La vedova Gucci: nessuno mi viene a trovare LA DARK LADY DI MILANO MILANO. «Non sopporto più di stare qui, non sopporto più queste sbarre», aggrappata all'inferriata della cella tre metri per due che la divide dal mondo dei liberi, Patrizia Reggiani Gucci appare come un fantasma, lontana dal suo passato fatto di 350 metri quadri in corso Venezia. E' in vestaglia, uno scialle bianco sulle spalle, come sempre un filo di trucco ma niente gioielli, niente orologio, niente di niente come prescrive l'amministrazione del carcere di San Vittore dove si trova dal 31 gennaio scorso, più di cento giorni ormai. Accusata insieme a 4 complici di aver progettato l'assassinio del suo ex marito Maurizio Gucci, l'ultimo della dinastia della griffe con la doppia «G» incrociata. «Penso giorno e notte a Maurizio. Rimugino sopra quella storia, a quel 27 marzo del '95 quando gli hanno sparato...», ripete più volte Patrizia Reggiani, un matrimonio patinato e burrascoso alle spalle, un sospetto lungo anni e poi le manette e le foto con gli occhiali scuri, mentre gli uomini della Criminalpol la portavano qui. «Qui non ci voglio più stare», dice lei. Come se bastassero quelle parole per aprirle la porta con le sbarre al secondo piano di San Vittore, reparto femminile, storie di droga e di prostituzione, qualche omicidio, ma nessuna con il suo scintillante passato, adesso in briciole. «Aspetto con ansia il giorno dei colloqui, ma ormai viene a trovarmi solo mia madre», scuote la testa. E ammette: «Alessandra e Allegra, le mie figlie, le sento solo al telefono, ogni venerdì. Non le vedo da quella mattina di gennaio quando mi hanno arrestata». «E' meglio così, anche se è insopportabile non vederle», aggiunge. Come se fosse facile per una madre incontrare le figlie in un parlatorio con i muri scrostati. Lei di qua, loro di là dal tavolo, a guardare la loro madre, in carcere secondo le accuse per aver fatto ammazzare il loro padre. «Meno male che c'è lei, a portare un po' di allegria», e con la mano indica la sua anziana compagna di cella, una detenuta comune seminascosta dagli asciugamani e dai vestiti che penzolano dai fili tirati tra i due letti a castello. A sinistra quello di Patrizia Reggiani, a destra quello della sua compagna di cella. «E' lei che cucina sul fornello da campeggio, è lei che si occupa di tutto e che mi fa da ma¬ dre», sorride alla donna, Patrizia Reggiani, le mani sempre attaccate alle sbarre della cella. Ma poi il discorso torna sempre lì, alla vita che si è fermata 105 giorni fa, quando sono andati a prenderla e lei non ha fatto una piega: «Aspetto con ansia di poter uscire da qui, facciano qualsiasi cosa, ma mi lascino uscire». Una possibilità ci sarebbe. Anni fa la donna è stata operata di tumore al cervello. I suoi avvocati, Gaetano Pecorella e Giovanni Dedola, sostengono dopo una perizia di parte - che la loro assistita sia «priva di capacità e di giudizio». Per appurare se sia il caso di tramutare la detenzione in arresti ospedalieri, il gip Maurizio Grigo ha disposto altri accertamenti. «Mi hanno detto che mi faranno altri esami. Non so ancora quando, forse domani...», sussurra lei. Ma della sua malattia non dice una parola. Delle sue sofferenze non fa cenno, chiusa tra la porta con le sbarre e la finestra da cui si vede un pezzo del muro di cinta, così alto da impedire la vista a quello che c'è fuori, dopo il carcere. Dentro la cella c'è un tavolino con il fornelletto, i due letti uno accanto all'altro così vicini che la notte si sentono anche i respiri. A parte le ore d'aria, in cortile e negli spazi di socialità, la vita di Patrizia Reggiani fini¬ sce a un metro da qui, nel corridoio con i muri verdi che si aprono sulla sua cella, tappezzata dalle foto di attori famosi e paesaggi, che la sua compagna strappa dai rotocalchi. Del processo, dei giudici, Patrizia Reggiani Gucci non può parlare. Rimane l'accusa di omicidio, mai ammessa e mai respinta davanti ai magistrati che ha incontrato due volte c che per due volte se ne sono andati con il verbale in bianco. Se non per una frase appena: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». In altri raggi, a pochi metri dalla sua cella, ci sono i suoi complici. Quelli che lei avrebbe pagato 600 milioni per uccidere Maurizio Gucci, assoldati da un'amica che si era rivolta a un amico, Ivano Savioni, portiere di un albergo a una stella, l'unico fino ad ora a confessare ogni particolare dell'omicidio. Da lei non c'è nemmeno una parola, per loro. Il carcere che li accomuna diventa il luogo delle distanze, delle misure ritrovate. Fosse anche solo per la donna che le cucina, che non è una cameriera e che lei definisce «un po' come mia madre». Ma non basta per dimenticare tutto, e Patrizia Reggiani lo sa: «Anche se mi trovo bene, non sopporto più di stare in questa cella». Fabio Potetti «Mia madre è l'unica che non mi ha abbandonato Le mie figlie le sento soltanto per telefono» «Ogni notte sogno Maurizio Per fortuna ho una brava compagna di cella: è lei che si occupa di tutto» Patrizia Reggiani, arrestata all'alba del 31 gennaio perché accusata di essere la mandante dell'omicidio del marito Maurizio Gucci

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