«Mobutu, domani occupiamo Kinshasa»

«Mobutu, domani occupiamo Kinshasa» Ultimi tentativi sudafricani di evitare la battaglia, si prepara il salvataggio degli stranieri «Mobutu, domani occupiamo Kinshasa» Ultimatum dei ribelli, in città è già ilpanico REPORTAGE FINE Di RmUO m ZAIRE KINSHASA DAL NOSTRO INVIATO E' proprio come a Saigon nelle sue ultime ore, quando i vietcong stringevano la corda al collo del vecchio regime e il mondo finiva. Anche qui, ormai, se ne stanno scappando tutti. Però la città è circondata, l'aeroporto è chiuso, le strade di uscita controllate dai ribelli. L'unica via di salvezza resta il piccolo imbarcadero di legno sul fiume Congo: l'acqua scorre pigra, e se non fosse per la paura che ammorba l'aria, la sua banchina maleodorante tiene ora tanta gente che potrebbe sembrare la stazione centrale nei giorni di ferragosto. I nervi cominciano a bollire. All'indomani del tentativo, fallito, del presidente sudafricano Nelson Mandela di riunire i due protagonisti della crisi dello Zaire, le forze di Kabila lanciano l'ultimatum: «Il presidente Mobutu lasci lo Zaire entro domani o le forze ribelli entreranno a Kinshasa e lo cattureranno». E proseguono le frenetiche attività della diplomazia: il grande mediatore Mandela cerca infatti di trovare una qualche intesa per un trasferimento pacifico dei poteri attraverso un vertice a Città del Capo con il leader degli oppositori Kabila. Qui fa un caldo dannato, umido, molliccio, che viene dalla foresta tropicale che assedia Kinshasa. Non si respira, ci sentiamo sempre più presi in trappola; cominciamo a guardare con invidia le facce sudate di chi parte, le loro valigie modello armadio, la soddisfazione che gli gonfia la pancia. Un regime crolla, e in questo crollo trascina con sé le paure di migliaia di persone, generali, banchieri, trafficanti, ministri, portaborse, tutta la cricca di un potere assoluto durato 32 anni. Le partenze sono cominciate da un mese ma ormai si sono fatte una fuga disperata; un «visto» viene pagato sottobanco tremila dollari, si arriva a cinquemila per un Paese europeo. I topi abbandonano sempre la nave che affonda, e la nave di Mobutu ormai non galleggia più. Kinshasa è diventata intanto una città di fantasmi. Le strade, son tre giorni ormai che si mostrano vuote, immobili. Le piccole bande di questuanti che affollavano gli incroci restano sedute sull'asfalto per ore, aspettando un'auto da scroccare. Se non fosse per i poveracci in fuga che si affollano al cancelletto arrugginito di qualche ambasciata africana, in giro non si vedrebbe una sola faccia; e l'unico rumore che si sente è ormai il lavoro affannato dei muratori che lottano contro il tempo per tirar su il muro di cinta di qualche casa poco protetta. La tempesta s'avvicina, c'è chi spera che un paio di metri di mattoni riesca a tenerla lontana. Quattrini sprecati. Sono comunque le illusioni della disperazione. Qui tutti s'aspettano l'inferno, e sanno bene che l'inferno non guarderà in faccia nessuno. Le ambasciate occidentali sono appena a un passo dall'ordinare la partenza dei pochi stranieri rimasti, e intanto i soldati belgi e portoghesi son già arrivati qui dall'altra parte del fiume, da Brazzaville, dove restano invece i marines americani e i para francesi, con gli elicotteri pronti a venire quaggiù. E quaggiù, quelli con la faccia bianca siamo ormai in pochi; chi aveva buonsenso ha già tagliato la corda, per Brazzaville o direttamente per l'Europa. I pochi matti rimasti se ne stanno tappati dentro casa, con l'orecchio attaccato alla radiolina e, la notte, con la luce sempre accesa e la borsa pronta. Il prezzo delle scorte armate è raddoppiato; ma vale soltanto di giorno perché, comunque, anche senza il coprifuoco, nessun bianco se ne sarebbe andato in giro quando il sole comincia a calare. Questi, sono posti dove rabbie antiche covano nella pancia dei disperati: e la faccia di un bianco vale quella di un mercenario, che prima lo ammazzi e poi lo spogli. Il mitra della tua guardia del corpo, credetemi, serve a poco, l'ho visto qualche tempo fa sulla strada dell'aeroporto, quando la folla ha circondato la macchina e gridava «mercenari» e cercava di divorarci. Tutti quelli della cricca di Mobutu che non sono riusciti a scappare si sono intanto infilati all'Intercontinental, dove stanno gomito a gomito con i giornalisti (chi altri mai potrebbe venire a Kinshasa, in que- sti giorni?). Ciabattano pigri, telefonano, ciondolano, e aspettano il «visto». Il parcheggio dell'albergo si è riempito di auto da cento milioni l'una; a vigilarlo c'è un vero esercito di guardie blu. Anche l'albergo sembra un film su Saigon, dove le comparse più seguite sono due bianchi misteriosi, un belga e un francese credo, che non vogliono parlare con nessuno ma sanno tutto di mercenari e di spedizioni speciali. Salutano con un «Hi», ma rifiutano di rispondere. E qui, tranne che aspettare i guerriglieri di Kabila, non c'è poi molto da fare. Questi dannati guerriglieri ormai li aspettano tutti, anche con impazienza. «Non si può continuare a non vivere», diceva ieri pomeriggio Madame Rose. La gentile signora era l'unica faccia che c'era in giro, e mi sono fermato a chiacchierare. Lei è la proprietaria di un negozio di parrucchiera che si chiama «Salon La Prospe- rité»; in realtà, questo salone è un pezzo di lamiera appoggiato al muro di una casa di rue Papà Joel, con due tendine di plastica che pendono fino a terra. Ma bisogna sapersi contentare. La gentile signora serve donne e uomini, però da una settimana non ha più un cliente. «Che arrivino, i liberatori, e che sia finita. Quest'attesa ci fa morire». Madame Rose ha cercato di convincermi a tagliarmi i capelli; sul muro tiene appeso un disegno con l'immagine dei capolavori che lei riesce a fare, e mi spiegava che, anzi, la capigliatura di un bianco è più facile da lavorare. Le ho confessato con affanno che avevo un appuntamento urgente, e Louis, detto Ton-Ton, che è vecchio e sag¬ gio, mi ha portato in salvo sul suo macinino, ridacchiando felice. Anche Ton-Ton dice che è l'ora di finirla. Ieri sera, anzi, nel nostro ultimo giro di ronda prima del coprifuoco annusava l'aria e scuoteva la testa. «M'ssié, c'è proprio mia brutta aria. Si prepara l'inferno». Ton-Ton, di queste cose se ne intende; ne ha vissute parecchie. Penso proprio che bisogna credergli. Il fiato dei guerriglieri comunque è già sulla città. Le ultime notizie (i migliori informatori: i missionari, con i loro radiotelefoni) li danno a sessanta chilometri ad Est, che stanno montando un ponte di fortuna sul fiume Nseli. Quel ponte mandato a pezzi è stato l'ultimo lavoro dei mercenari di Savimba, che erano arrivati qui per fermare l'avanzata di Kabila e che ora se ne stanno tornando nel loro «santuario» in Angola. Aggiustato il ponte, l'assalto dei guerriglieri alla città sarà un gioco da ragazzi. «E poi, dice Ton-Ton, i vietcong sono già dentro la città». A Kinshasa stanno arrivando intanto i soldati di Mobutu che hanno abbandonato la linea del fronte, a Nseli, e sono scappati via. Hanno buttato nella polvere le uniformi (non le anni), e ora si preparano al saccheggio. Il bagno di sangue si gioca tutto in queste pochissime ore: o Mandela riesce a far trovare un accordo a Mobutu e a Kabila, o il vuoto di potere che ormai si riflette nei nervi tesi di Kinshasa sarà riempito dalla violenza dispe- rata, dalla fame antica, dalla voglia di vendetta, che centinaia di migliaia di dannati della terra si portano dentro da un tempo infinito. Bantu, Kasai, Mbangala: tutti contro tutti. Mandela sta cercando di riacchiappare Kabila, che latita e si fa pregare, mentre invece Mobutu è tornato a Kinshasa, umiliato ed offeso per aver atteso inutilmente durante un'intera giornata l'incontro con il suo nemico. Comunque Mandela spera ancora. Il maresciallo è ormai uno zombie, la sua storia e finita. Ma Mobutu ha detto sempre che «è meglio un dittatore morto, che un ex dittatore». Bisogna vedere quanti compagni di strada si porti via con sé un dittatore che decide di morire. Nella notte di Kinshasa c'è già troppa gente che spara; quando spareranno anche di giorno, raccomandiamoci le anime al padreterno. Intanto, però, invitiamo caldamente il signor Kabila a dare pronto ascolto all'appello di Madame Rose, che è ima signora gentile e di belle maniere. Mimmo Candito La città è circondata l'aeroporto chiuso l'unica via di salvezza è il fiume Soldati belgi e portoghesi sono già sbarcati qui da Brazzaville Mobutu è tornato in città ma le strade sono deserte e regna un silenzio spettrale Cinquemila nuove reclute dell'Alleanza per la liberazione del Congo-Zaire ieri a Goma Sopra il loro leader Kabila