ZANGHERI: ADDIO AL MASSIMALISMO di Edmondo Berselli

ZANGHERI: ADDIO AL MASSIMALISMO ZANGHERI: ADDIO AL MASSIMALISMO // socialismo tra ieri e oggi IMOLA OPO oltre un secolo di vita, il socialismo italiano non solo non è morto ma è ancora necessario. La sinistra non può farne a meno. Anche quando si presenta sotto le spoglie radicali di Rifondazione comunista. Lo dice uno storico, Renato Zangheri, romagnolo, 72 anni, che del socialismo è stato autorevole studioso, docente universitario e popolare protagonista, come sindaco di Bologna e come deputato del pei. Chiusa nel 1991 l'esperienza parlamentare, Zangheri si è imbarcato in una audace impresa: la Storia del socialismo italiano per Einaudi. Nel 1993 è uscito il primo volume {Dalla Rivoluzione francese a Andrea Costa), nei giorni scorsi è uscito il secondo: Dalle prime lotte nella Valle Padana ai fasci siciliani. Il terzo volume, che arriverà alla prima guerra mondiale, concludendo l'opera (almeno per ora), è atteso fra due o tre anni. Il socialismo italiano ha avuto due grandi anime: quella riformista e quella massimalista. Il d l dll i STORIA DEL SOCIALISMO ITALIANO (II) Renato Zangheri Einaudi pp. 619. L. 95.000 Renato Zangheri Una manifestazione socialista a fine '800. Il secondo volume della «Storia del socialismo» di Renato Zangheri abbraccia il periodo dalle lotte contadine della valle padana ai fasci siciliani GOBETTI, ! POPOLARI E LA LIBERTA' QUAL è il nesso fra Piero Gobetti e i popolari, i protagonisti dei carteggi 1918-1926 che vedono adesso la luce per la cura appassionata di Bartolo Gariglio, un allievo di Francesco Traniello (Con animo di liberale, Franco Angeli editore, pp. 330, L. 45.000)? Piace andarlo a scovare in una tragedia di Vittorio Alfieri, «Virginia», là dove appaiono i «liberi e forti». Don Luigi Sturzo ha forse modellato nell'officina del grande astigiano l'appello «a tutti gli uomini liberi e forti» che annunciava - è il 1919 - il partito popolare. Vittorio Alfieri è l'eroe della libertà che orientò Piero Gobetti, il protagonista della tesi di laurea discussa con Gioele Solari: «Egli ha lasciato il più generoso esempio di resistenza intellettuale attiva contro le oppressioni politiche, resistenza dell'individuo solo che non è vinto già per il fatto di sentirsi spiritualmente più alto del tiranno». Consapevole di non aver nulla «a che fare con gli schiavi» (il motto «bene alfieriano» dell'editore ideale disegnato da Casorati), Gobetti non poteva ignorare il sacerdote di Caltagirone, estraneo al «vecchio clericalismo», «il messianico del riformismo» che, «svegliando coscienze individuali, suscitando impulsi autonomi, operò di fatto come un liberale né seppe più fermarsi a mezza strada». «Non ho voluto disturbarla al Congresso (...): ma l'ho seguito, con animo di liberale» scrive Gobetti a Sturzo nell'aprile del 1923. Il Congresso è quello di Torino, dopodiché i popolari lasciarono il gabinetto Mussolini. Sturzo, ma non solo. Le maggiori figure del cattolicesimo politico dialogano epistolarmente con il direttore di La Rivoluzione liberale: De Gasperi e Donati, Miglioli e Giordani, Gronchi e Jacini (i profili biografici dei corrispondenti gobettiani suggellano il volume). L'ultima lettera (mittente Armando Cavalli) porta la data del 16 gennaio 1926. Di fi a un mese, Piero Gobetti morirà esule a Parigi. Professando la religione della libertà. Bruno Quaranta secondo volume della «Storia» si apre con le polemiche contro l'ingresso in Parlamento di Andrea Costa e con le dure lotte bracciantili dei cosiddetti moti de «la bojel». Siamo di fronte alle prime manifestazioni dell'anima massimalista? «E' ancora presto per parlare di massimalismo. L'opposizione all'ingresso di Costa alla Camera è piuttosto un effetto dell'influenza che l'anarchismo esercita sul socialismo italiano e in particolare su quello romagnolo, di cui Costa era espressione». Nel Nord Italia, negli Anni Ottanta dello scorso secolo, si costituì un partito operaio attorno ai problemi dell'industrializzazione. Ebbe un giornale, «Il Fascio operaio», e anche un inno, il famoso «Canto dei lavoratori» su parole di Filippo Turati («Su fratelli su compagni...»). Si può parlare di una prima svolta in senso riformista? «Direi di no. Il partito operaio è sicuramente sintomo dell'iniziale industrializzazione, ma resta su posizioni molto ristrette. Economicistiche. Rivendicative. Respinge di fatto la lotta politica e quindi non riesce a diventare un vero partito socialista. Per quanto nobile, rimane subalterno, con un'incapacità di capire il ruolo dello Stato e le relazioni fra le classi». Che cosa ci vuole perché nasca un partito socialista? «La capacità di collegare le questioni sociali con lo sviluppo del Paese, con i problemi economici, con le alleanze politiche. Ciò avviene con il gruppo milanese di Turati, che sposta su un terreno politico e ideologico le rivendicazioni dei primi movimenti operai. Sia Filippo Turati sia Antonio Labriola riescono a coniugare cultura sociahsta e realtà operaia. La vecchia contrapposizione fra Turati e Labriola è da considerarsi superata». Quali scelte segnano la svolta dalle posizioni rivendicative a una linea riformista? «Partecipazione o no alle elezioni, alleanza o no coi partiti affini. Se l'attività parlamentare potesse portare a risultati positivi o servisse soltanto a creare agitazione. Nell'epoca studiata in questo volume, lo stesso Turati è su una posizione di intransigenza: niente partiti affini, meglio presentarsi da soli. Ma passò a una politica di alleanze, fino ad esserne il portabandiera, quando la reazione crispina sciolse il partito socialista. Si costituì la Lega per la difesa delle libertà e il partito socialista si pose su un terreno decisamente democratico». Qual è stato l'atteggiamento dei socialisti di fronte alla modernizzazione di Giovanni Giolitti? «Dopo la svolta del secolo il socialismo turatiano tiene conto del cambiamento avvenuto e delle disponibilità che Giolitti mostra verso il movimento operaio. Ma ci sono dei limiti. Perché Giolitti non estende al Mezzogiorno questa politica liberale, mentre le grandi riforme, come quella fiscale, di cui si parla fin da allora, finiscono insabbiate. Di questi limiti Turati si rende conto? si chiedono i suoi critici che seguono una linea di attacco frontale alla borghesia». Chi sono? «I sindacalisti rivoluzionari: Arturo Labriola (non più Antonio), Lanzilio, Ciccotti, i quali anche seguen- Dalle lotte nella Valle Padana ai fasci siciliani, con un occhio al nostro tempo: «Perché Bertinotti non è un estremista.» do Sorel ritengono si debba dar corso a una lotta a oltranza, con mezzi risolutivi come lo sciopero generale, che viene mitizzato come strumento di lotta. E i massimalisti come Menotti Serrati. Con tentativi di compromesso fra le due anime, riformista e massimalista, portati avanti da Oddino Morgari e da Costantino Lazzari». Che cosa contraddistingueva le posizioni massimalista? «Una riserva mentale, che io non saprei chiamare altrimenti che riserva insurrezionale, nel senso che le questioni sarebbero state definitivamente risolte con l'azione rivoluzionaria. Vedi la Settimana rossa nel 1914 e i molti equivoci del Biennio rosso». Oggi le accuse di massimalismo piovono su Rifondazione comunista. Si può dire che, mutatis mutandis, il partito di Bertinotti ricalca le orme dei socialisti massimalisti? ((A me pare che oggi non ci sia nessuna parte della sinistra italiana che alimenti una riserva di tipo insurrezionale. Nessuno pensa che l'ultima parola spetti alla rivoluzione. Rifondazione comunista sostiene le sue posizioni all'interno di una coalizione di governo, non dubita dell'efficacia dell'azione parlamentare, avanza richieste che pos¬ sono essere anche respinte, perché strumentali o per altri motivi, ma che restano nell'ambito di uno sviluppo democratico». Ciò significa che il massimalismo è stato sconfitto? «Cinquantanni di democrazia non sono passati per nulla e hanno fatto maturare una visione nuova dei rapporti fra democrazia e socialismo. Questo consente di procedere a una revisione dell'idea di socialismo, anche in maniera molto profonda, come infatti sta avvenendo». Però si contrappongono idee diverse di che cosa debba diventare il socialismo. D'Alema non la pensa come Veltroni. A che cosa il socialismo non può rinunciare? «Il senso della solidarietà, una reale uguaglianza delle posizioni di partenza, la pressione in favore dei meno fortunati, l'impegno per la scuola non significano la stessa cosa per progressisti e conservatori, per Tony Blair e la signora Thatcher. Io vedo una formazione socialista e democratica, che rinunci pure ai simboli e alle mitologie, ma non rinunci a caratteri fondamentali del socialismo». Ma Rifondazione comunista può far parte di questa formazione? Chi invita l'Ulivo a di¬ sfarsi di Rifondazione ha ragione o ha torto? «Nulla esclude che una formazione politica di sinistra abbia nel suo seno componenti diverse. E' anzi un segno di vitalità. Io sto ai fatti. I sacrifici che sono stati chiesti da Ciampi e Prodi sono probabilmente i più pesanti fra quelli imposti negli ultimi anni. Rifondazione in definitiva ha accordato la fiducia a questo governo. Quindi non mi pare impossibile una collaborazione. Né mi sembra realistico un sensibile cambiamento dei rapporti elettorali fra l'Ulivo e Rifondazione». Alberto Papuzzi IL LABIRINTO DEL NOVECENTO IL NOVECENTO E LE SUE STORIE Scipione Guarracino Bruno Mondadori pp. 282 L 15.000 IL NOVECENTO E LE SUE STORIE Scipione Guarracino Bruno Mondadori pp. 282 L 15.000 ORSE il ministro Luigi Berlinguer non immaginava che la decisione di ristrutturare i programmi scolastici concentrando nell'ultimo anno delle scuole superiori la storia del Novecento avrebbe scatenato una serie così ampia di polemiche, che hanno investito tanto la metodologia quanto i contenuti dell'insegnamento della storia, l'aspetto curriculare come l'architettura interpretativa del Ventesimo secolo. Fatto sta che la discussione ha rimesso in luce l'aspetto drammaticamente problematico del Novecento, scatenando polemiche attraverso le quali è riemersa la carica conflittuale, e spesso pervasa da intense risonanze ideologiche, che contraddistingue tuttora le interpretazioni storiche del nostro secolo. Tra i libri che possono contribuire significativamente all'inquadramento del Novecento figura la recente ricostruzione di Scipione Guarracino H Novecento e le sue storie: una specie di catalogo ragionato h l Due interpreti del Novecento: Furet (a sinistra) e Hobsbwam g gche concettualizza le vicende del secolo offrendo un panorama dei conflitti, dei processi, delle transizioni verificatesi fra il tramonto dell'Ottocento e i nostri anni, sulla scorta delle principali interpretazioni che ne sono state date (e senza trascurare certe opere dell'immaginario collettivo, film come La grande illusione ad esempio, che hanno dato un immediato rilievo simbolico agli eventi). Il dilemma degli storici, di fronte al Novecento, sembra riassumibile in larga parte dalla contrapposizione fra l'interpretazione di Francois Furet {Lì passato di un'illusione), che «processa» l'idea socialista, e quella di Eric Hobsbawm (fl secolo breve), che tende a considerare il Novecento su un orizzonte più largo, non esaurito dalla dimensione del conflitto ideologico fra democrazia liberale e socialismo pianificato. Questa dicotomia, ovviamente sommaria e semplifìcatoria, si fa sentire in misura ingente nel dibattito italiano, nel senso che alla riduzione del Novecento a espressione e paradigma del conflitto fra opposti fronti ideologici, spesso esposta in chiave acutamente polemica, si contrappone da sinistra il tentativo di riconsiderare il nostro secolo «dalla parte di Hobsbawm», relativizzando in sostanza lo scontro ideologico fra socialismo e liberalismo all'interno di scenari in cui quel conflitto è solo uno fra i processi e solo una fra le misure interpretative. Guarracino delinea la vicenda del Novecento sintetizzandone i nuclei problematici principali (la rottura dell'ordine ottocentesco provocata dalla Grande Guerra, il conflitto triangolare fra democrazia, comunismo e fascismo, il duello bipolare dopo la seconda guerra mondiale, il Novecento «secolo dell'estremo» e della violenza politica, l'emersione del Terzo Mondo, la sconfitta del comunismo). Alla fine se ne ricava un quadro complesso, che pone qualche domanda, oltre a quelle poste continuamente dall'autore. Mi riferisco soprattutto a uno dei «cinque scenari di fine secolo» (la scoperta del limite ambientale, la fine del Terzo Mondo, la mondializzazione, il rimpianto del nemico) che l'autore illustra alla fine del libro e che riguarda «la democrazia e il capitalismo vincenti». Sembra quasi infatti che nel tentativo di mostrare la specificità geopolitica della democrazia liberale come «tecnica delle decisoni collettive, prese da tutti e valide per tutti, fondate sul principio maggioritario», la nozione della democrazia si confonda come una delle molte varianti storicamente osservate della gestione del potere. Si direbbe che l'analisi di Guarracino, mentre chiarisce come la democrazia liberale è un prodotto della civiltà occidentale, e mentre individua le possibilità del capitalismo senza democrazia, esemplificate dagli «ipercapitalismi» dei Paesi asiatici a industrializzazione recente, tenda inevitabilmente a sterilizzare l'idea e l'esperienza di democrazia riducendola a una forma tra le altre di metodo di governo. Scrive l'autore: «La tesi che la superiorità della democrazia può essere affermata solo in un'ottica eurocentrica e l'altra tesi che un sistema non democratico è da preferirsi quando riesce a risolvere i problemi più impellenti della povertà ovvero che lo sviluppo si raggiunge meglio senza la democrazia vanno entrambe sottoposte a qualche limitazione» (il corsivo è mio). Ecco, verrebbe da dire che in queste parole serpeggi ancora un tasso di ambiguità: il realismo delle asserzioni pare pericolosamente destinato a sfociare in una sorta di minimalismo politico. Probabilmente è un'astrazione assolutizzare la democrazia liberale, come metodo e come fine della convivenza collettiva: ma senza il punto di vista democratico si rischia anche di cadere in un Conflitti, processi transizioni: le «letturo del secolo ricostruite da Scipione Guarracino, due interpreti su tutti: Furet e Hobsbawm relativismo nel quale sono i processi storici a guidare se stessi. Si avverte l'eco di una concezione deterministica, che consentirebbe solo di contemplare l'evolversi dei processi globali senza lasciare spazio al giudizio. E se resta solo il mondo, con la sua inarrestabile dinamica materiale, con le idee e le istituzioni al servizio di un procedere acefalo, minaccia di svanire anche la possibilità di strutturare un complesso di priorità, se non di valori. Un'assenza, questa, che ci lascerebbe osservatori distanti e freddi impegnati forse nell'esecuzione di programmi politici parziali o locali, ma di fatto indifferenti o rinunciatari rispetto a un'idea, si sarebbe detto una volta, di progresso: perché dopo la fine dell'ideologia il rischio non consiste nell'impossibilità di credere, ma nel credere che tutto è uguale a tutto. Edmondo Berselli

Luoghi citati: Bologna, Caltagirone, Imola, Nord Italia, Parigi, Torino, Virginia