Ultimi giorni nella Saigon d'Africa di Mimmo Candito

Ultimi giorni nella Saigon d'Africa Ultimi giorni nella Saigon d'Africa Le quinte colonne ribelli sono già in città ventate sei. Ce ne vorrebbero dieci. Alla passerella, la confusione è dominata dalle bande di soldati e di agenti in borghese della polizia politica. Bloccano la gente che scappa, la depredano. «Anche noi dobbiamo mangiare», spiegano. Sono due anni che non prendono un solo Nz di stipendio, e si arrangiano. Bisogna capirli. Però vogliono arrangiarsi anche a spese mie, e questo lo capisco meno. Mi sbattono in un angolo, minacciano di prendermi il passaporto (che rifiuto con ogni forza di consegnargli); chiedono mille dollari se non voglio finire in galera. La gente passa accanto, indifferente: queste, quaggiù sono pratiche di ordinaria amministrazione. Fa un caldo dannato. Il gruppo si rende duro, mostra i denti. Uno dei predoni tira fuori il pistolone e dice che con lui bisogna essere gentili, che lui è anche uno studente e merita considerazione. Gli sbatto allora che sono un professore, col tono che un professore vero userebbe sui suoi studenti. La cosa li impressiona, rimette il pistolone nella cintura, cambia anche tono. Valli a capire, i feroci banditi ammansiti dai titoli accademici. Finisce con una mancia passata dentro la mano, un biglietto da 100 dollari. «E mi raccomando, professore, stia in albergo che in giro è pericoloso. C'è brutta gente». Accompagna con dolcezza la portiera del macinino di Ton-ton. Chissà se vuole essere anche spiritoso. La guardia del corpo chiede comunque 150 dollari al giorno, da mattina a sera. I migliori, naturalmente, sono gli israeliani, che vengono in due e ti accompagnano con l'Uzi impugnato stretto sotto il braccio. Han¬ no i capelli tagliati cortissimi, sembrano i fratellini scemi di Schwarzenegger. E non ridono mai. Dev'essere colpa del mio pessimo francese. Alla passerella il traffico è intenso, ma non ha niente a che vedere con quello che era nelle settimane passate. Ormai i pescecani sono scappati quasi tutti, e in giro si vedono ben poche delle Mercedes, delle Bmw e dei Pajero che prima dominavano le strade di Kinshasa. Ora le incontri tutte sull'altra sponda del fiume, a Brazzaville, che aspettano come girano le cose quaggiù. Anzi a Brazzaville hanno già preparato un grande campo profughi, che potrebbe venire bene nei prossimi giorni se Mobutu non cede e Kabila lancia l'ordine dell'assalto finale. Non è rimasto granché di tempo, il conto è già cominciato. Gran parte dei pescecani rimasti si è rifugiata all'Intercontinental, o comunque vi ha spedito le famiglie. Affollano i corridoi e la lobby, grassi, rotondi; passeggiano annoiati, col telefonino che bolle. I loro bimbi giocano a rincorrersi, stilando tra le decine di vigilantes che vigilano ogni angolo, ogni ingresso, ogni porta, ogni sala. Quando qualcuno degli ospiti parte (e la strada è sempre quella del traghetto per Brazzaville), gli ascensori si riempiono di valigie grandi quanto un armadio. Dev'essere una taglia speciale, modello Mobutu. Gli americani giurano anche che molte di queste valigie sono piene di dollari. L'Intercontinental di Kinshasa sembra, anche lui, il Continental di Saigon. C'è la stessa aria di apocalisse che arriva, i giornalisti, gli spioni, i trafficanti di armi e di droga; anche le puttane che sorridono con la bocca rossa. Solo che sono puttane nere, e grandi; non le bimbe delicate, color oliva, di Saigon. Dicono di volere 20 dollari per aiutarti a non sentire la solitudine dannata di questo posto che muore; poi, con 10 gli va anche bene. Da fuori delle vetrate arriva il caldo umido e il silenzio della città morta. A Brazzaville stanno pronti un migliaio di soldati: marines americani, legionari francesi, poi anche para portoghesi, gli spagnoli. Se qui scoppia l'inferno, passeranno il fiume e verranno a dare una mano a chi scappa. Gli italiani hanno intanto raddoppiato la protezione annata dell'ambasciata: ieri sono arrivati altri quattro carabinieri con i baffi e un altro blindato; tra imprenditori, funzionari, preti, suore, giornalisti, qui saremo rimasti un centinaio di italiani, o poco più. La città è stata divisa in dieci zone immaginarie, ogni zona fa capo a un responsabile, i telefonini sono in contatto costante. E tutti hanno una valigia pronta, dietro la porta di casa. Perché tutti sanno che l'inferno qui non è un affare tra gentiluomini: s'è visto nel '91 e poi ancora nel '93, e chi c'era non ha dimenticato. Qualcuno dice di prepararsi a barricare la porta della stanza, nell'albergo. Kabila avanza sulla città da quattro direttrici d'attacco, e l'assedio si chiude lentamente ma inesorabilmente. Bandundu è già caduta, la strada di Matadi è ormai impraticabile, l'unica vera battaglia si sta combattendo nella zona di Kenge. E' una battaglia che dura da una settimana, anche se dopo il primo scontro si è trasformata ora in un combattimento di posizione: Mobutu da questa parte del ponte sul fiume Kwango, e Kabila dall'altra, sparacchiano, tirano, ma non si muovono. Restano in attesa della soluzione politica, che (se ci sarà) sarà mercoledì, nel secondo incontro tra i due boss a bordo della nave sudafricana. Kabila intanto ne approfitta per migliorare la logistica e i rifornimenti, che sono ancora approssimativi. Anche Mobutu usa la pausa per raccattare altri uomini della sua «forza speciale», pagandogli 200 dollari in contanti (che per chi è abituato a non avere nemmeno un cent è una specie di vincita alla lotteria di Capodanno). E li spedisce verso Kenge. Ma tutti sanno che alla prima fucilata questi se la daranno a gambe; e che la vera difesa di Mobutu è arrivata finora dai guerriglieri angolani dell'Unita. Il vecchio Presidente zairese era stato sempre un fedele e provvido amico di Savimbi, ora Savimbi gli restituisce le cortesie, anche perché - se qui arrivasse Kabila - per Savimbi si preparerebbero tempi assai magri. In questo cuore profondo dell'Africa, senza strade, senza luce, senza telefoni, ma che da solo è grande quasi quanto l'Europa, le uniche vere informazioni ce l'hanno i missionari: dispersi con le loro povere chiesette di legno in ogni angolo della giungla, sono però tenuti insieme dalla rete di collegamento delle loro radio, che restano accese giorno e notte. In italiano, in spagnolo, anche in francese, quelle radio raccontano come si vive e come si muore nella foresta, chi arriva, chi parte, cosa sa padre Francesco, cosa ha visto sorella Desirée, cosa sa il vecchio santone dei padri comboniani o quello dei saveriani. Quando la fucileria si avvicina, scappano; ma giusto il tempo di farci l'abitudine, e poi tornano a vedere. Loro sono il gazzettino più credibile di questo pezzo di mondo che ancora non ha scoperto McLuhan. E loro mi hanno raccontato delle lunghe processioni di camion militari che arrivavano dalla frontiera angolana. «Forse erano quattromila uomini, forse diecimila», diceva un missionario alla radio. «Io non so contarli, ma erano davvero tanti». Dietro la caduta della nuova Saigon si apre un domino infernale, che rischia di far esplodere l'intera Africa. Lo Zaire confina con altri nove Stati, e ha miniere d'oro, di diamanti, di cobalto, di rame, petrolio ed energia sufficienti a inondare tutte le reti dell'Europa. E' un forziere che fa gola a tutti, e il volo degli avvoltoi ormai stringe i giri sul vecchio cadavere che comincia a puzzare. Franz Fanon diceva che, se l'Africa somiglia a una pistola puntata, lo Zaire è il grilletto di quella pistola. Fanon diceva queste cose al tempo della decolonizzazione, nella fine degli Anni Cinquanta, quando i «dannati della terra» cominciavano a prendere coscienza della propria storia. Sono passati quarant'anni, e qui è come se il tempo si fosse fermato. Mobutu è figlio di quel tempo; lo è anche Kabila, che allora flirtava con il Che. Il Che in quegli anni diceva; «2, 3, 1000 Vietnam». Invece Kabila l'altro ieri ha ricevuto nella foresta una delegazione di banchieri americani e inglesi, tutti con l'abito scuro e la cravatta. Forse non è vero che il tempo si sia fermato. Qui sembra sì di essere a Saigon, ma a Saigon, quella vera, ieri è arrivato un ambasciatore americano. 0 primo dalla fine della guerra del Vietnam. L'Africa ha misteri difficili. Proprio da queste narti, il giovane e ambizioso Stuiuey ci mise anni a ritrovare il vecchio Livingstone. Ora, nella notte, da Kinshasa mezzo perduta nell'oscurità si vedono le luci di Brazzaville che si specchiano sul fiume Congo; e sembra un miraggio. Le puttane dell'Intercontinental si rifanno il rossetto, aspettando clienti che non arrivano. E' un mondo che non finisce, la notte di Kinshasa aspetta l'alba. Mimmo Candito