Venezia scende in piazza ma non condanna l'assalto di Pierangelo Sapegno

Venezia scende in piazza ma non condanna l'assalto Venezia scende in piazza ma non condanna l'assalto diere e si increspa il gonfalone con il Leone alato. Il fatto è che questo senso d'irreale e dell'assurdo, questa confusione senza strade, questa città stanca, schiacciata dal suo successo e dai suoi turisti come quei traghetti che paiono affogare per i canali, questa città è davvero la capitale simbolo del Veneto miracoloso. E cos'è che può far più paura, un commando serenissimo lanciato alla conquista di un campanile o questo consenso diffuso, persino visibile, persino retorico tanto è ripetuto e qualunquista? Oggi, duecento anni dopo la fine della Serenissima, basta arrivare dalle campagne, fra gli stendardi appesi alle finestre, basta sentire i sindaci del Verone¬ se che ricordano tutti questo giorno «come un funerale, come una cosa triste», basta seguire Toffano Ezio, venetissimo insegnante di Castelfranco, che per portare in giro la sua bandiera s'è bruciato un giorno di ferie. Toffano Ezio ha messo il piede nella stazione di Santa Lucia quando suonava mezzogiorno. Il sole faceva sbuffi nella brughiera, e nel negozio rutilante di Olga Asta avevano appeso due stendardi sulle vetrine che si specchiano in faccia al campanile di San Marco. Appena sceso dal treno, l'hanno sequestrato i poliziotti, come dice lui. Gli hanno chiesto da chi aveva avuto il libro di Segato, «Il mito dei Veneti». E perché portava quella bandiera? «E' quella della vostra casa, che da lavoro anche a voi», racconta d'aver risposto. E adesso che li hanno lasciati venne in piazza, lui e l'elettricista raccolgono grappoli di consensi, e di litanie sull'Italia schiavista e predona. Un signore: «Siamo a livello barbarico». Un altro: «Ma gli italiani sono tutti barbari». I due della Digos origliano sconsolati. Una signora: «Qui senio tutti veneti puri. Io sono trevisana. I trevisani sono sempre stati fedeli alla Repubblica di Venezia». C'è l'avvocato D'Elia, il difensore di Segato, che airiva nella piazza e di fronte all'Harry's Bar il padrone del banchetto che vende pure le canzoni fasciste di «Vincere vinceremo» gli fa i complimenti: «Mi raccomando, li tiri fuori». «Lo vede?, quel signore è di An», informa D'Elia. E persmo nelle bancarelle che espongono le magliette con le gondole e la scritta controcorrente «Venezia Italia», dimostrano di stare più dalla parte del Toffano che da quella del sindacato e del quadro di Guttuso: «Dove ci sono le bandiere rosse non c'è voglia di lavorare», dice uno: «Meglio il Leone». Eppure, Massimo Cacciari adesso sta dicendo: «Il Leone di San Marco era anche un simbolo di sopraffazione, è vero. Ma quel Leone è soprattutto un grande simbolo di universalità e questo oggi ci interessa, mantenere questo significato, renderlo attuale». Gli applausi escono dal quadro di Guttuso, si sperdono nel respiro della laguna, nel brusio della piazza. E alla fine, quando la manifestazione va a chiudersi, da una fronda del pubblico si alza il grido «Viva San Marco» e qualche isolato «libertà». Venezia non s'è nemmeno stranita in tutto questo tempo. Si sgranchisce al sole. «Dai», urla Toffano all'amico. «Muoviti, che perdiamo il treno». Pierangelo Sapegno

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