Sventolano stelle e strisce sull'Africa nera francese di Andrea Di Robilant

E mercoledì vede Kabila Sventolano stelle e strisce sull'Africa nera francese IL TRAMONTO DI PARIGI WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Una delegazione di circa trenta banchieri americani è arrivata questo fine settimana a Lubumbashi, capitale dei ribelli, per esaminare la possibilità di fare buoni affari. La guerra civile non è ancora finita, insomma, che il grande business è già in movimento. Sulle macerie del vecchio Zaire sta dunque nascendo il Congo americano? L'uscita di scena di Mobutu Sese-Seko segnerà l'eclissi dell'influenza francese in Africa Centrale. Ma l'idea che gli Stati Uniti stanno rapidamente subentrando alla Francia per imporre una loro pax africana e spalancare le porte alle aziende americane non trova ancora conferma a Washington. Certo, il ruolo americano nel creare le condizioni per l'uscita di scena di Mobutu è stato evidentissimo. Quando i francesi hanno cercato di mettere insieme una forza umanitaria per mantenere lo status quo, gli Usa hanno fatto capire che non era il caso. E il mese scorso, quando l'avanzata di Kabila è diventata inarrestabile, è stato Bill Clinton a scrivere a Mobutu che era arrivato il momento di uscire di scena. Nei giorni scorsi, poi, l'intensa attività diplomatica dell'inviato americano Bill Richardson ha rinforzato l'impressione di una transizione guidata da Washington. E il suo blitz a Parigi per «conferire con i francesi», nato probabilmente come un beau geste per lenire la loro frustrazione, ha finito per mettere ancora più in risalto il ruolo marginale della Francia in tutta questa vicenda. «E' una svolta storica», commenta Jean Jolly, uno dei massimi africanisti francesi. «Segna l'entrata spettacolare degli Stati Uniti in Africa, e la definitiva sconfitta degli europei». Ma al Di¬ partimento di Stato rispondono che questa è geopolitica spicciola e fuorviarne, che non tiene conto dell'estrema complessità della situazione sul terreno. «E comunque non è vero che ci siamo schierati con Kabila», insiste il portavoce Nicholas Burns. La presa di distanza di Burns non è soltanto una cautela diplomatica. Anche nei think tank della capitale l'idea di una nuova egemonia americana non convince. Walter Kansteiner, l'uomo che seguiva l'Africa neU'amministrazione Bush e che adesso è uno dei direttori del Forum for International Policy, sostiene che «so¬ no stati gli stessi francesi, con la loro paranoia, ad alimentare questa storia del Congo americano. Ma come si può pensare che gli Stati Uniti possano allearsi con un uomo come Kabila, noto da sempre per il suo stridulo antiamericanismo?». Il Richardson in- siste che il principale obiettivo americano in questo momento è di evitare un bagno di sangue a Kinshasa favorendo in tutti i modi un soft landing, un atterraggio morbido dei ribelli nella capitale. «E credo che Richardson intenda davvero quello che dice», insiste Constance Freeman, direttrice del Dipartimento Africa al Council for Strategie and International Studies (Csis). «Tutto il resto è prematuro. Sappiamo che Kabila fa parte di una nuova leva di leader africani, assieme a Kagame, Afeworki, Chissano e altri, che non hanno intenzione di stare troppo ad ascoltare ciò che dicono le potenze straniere. Questa è gente che ha tutta l'intenzione di decidere in proprio. Anche perché i flussi di aiuti economici e finanziari sono ormai ridottissimi». Certo c'è chi dice, soprattutto nell'entourage di Mobutu, che il legame degli Stati Uniti con Kabila è in realtà più forte di quanto non si voglia ammettere e che il leader dei ribelli sia stato aiutato dagli americani, con armi e sostegno logistico. L'amministrazione Clinton non smentisce la presenza di un gruppo di consiglieri militari in Zaire. Ma insiste che la sua presenza militare è molto ridotta. E molto ridotta, nonostante la presenza dei 30 banchieri a Lubumbashi, rimane anche la presenza del business americano. La «grande abbuffata» delle aziende Usa in Zaire per adesso non si vede. Le prospettive per sfruttare i ricchi giacimenti naturali ci sono. Ma finora gli unici grossi contratti con i ribelli li hanno firmati canadesi e sudafricani. «Le compagnie che hanno cominciato a rosicchiare quel bengodi non sono americane», conferma Kansteiner. E la Freeman: «Ci sono un sacco di soldi da fare in Zaire e noi incoraggiamo le aziende americane a investire. Ma la verità - e lo dico con rammarico - è che c'è ancora molta reticenza». Andrea di Robilant Una famiglia di zairesi si prepara a sbarcare a Brazzaville, in Congo