Costa, il fascista onesto

IL CASO. Le memorie dell'ultimo federale di Milano ribaltano la storia della Guerra civile IL CASO. Le memorie dell'ultimo federale di Milano ribaltano la storia della Guerra civile Costa, il fascista onesto Fedele al duce, nemico delgerarcume L E memorie rimangono inconciliate: come si ricostruisce da esse quella «storia comune», di cui tanto parliamo? Questo interrogativo accompagna la lettura del libro di Vincenzo Costa, L'ultimo federale. Memorie della guerra civile 1943-1945, edito ora dal Mulino. Costa è stato l'ultimo federale fascista di Milano. La storiografia della Resistenza lo considera con un certo distaccato riguardo: è collocato infatti tra i fascisti «sinceri o di coraggio», tra «i più presentabili» (così ne parla Giorgio Bocca!. Costa era un uomo che sapeva parlare agli operai nelle fabbriche in sciopero, ottenendo la loro attenzione, se non il loro consenso. Era «il federale onesto» - come diceva ironicamente ancora nel 1946 l'Unità in occasione del suo processo, che lo condannava a 18 anni (di cui però avrebbe scontato soltanto tre anni). Proprio in carcere Costa inizia a scrivere le sue memorie in un lunghissimo manoscritto che narra l'intera sua vita e che sarebbe stato in parte utilizzato da alcuni storici della Repubblica sociale italiana, in particolare da Giorgio Pisano nella sua Storia della guarà civile in Italia. Ma e stato Renzo De Felice a cogliere l'importanza storiografica dello scritto di Costa, raccomandandone la pubblicazione nelle sue parti finali e impegnandosi a fame la presentazione. Dopo la scomparsa di De Felice, questo compito è stato assunto da Giuseppe Parlato che inquadra la figura del federale milanese in una densa e attenta introduzione. Le pagine di Costa presentano le vicende appassionanti, crudeli e decisive, tra il settembre 1943 e l'aprile 1945, in un'ottica che rovescia specularmente molta memorialistica resistenziale: qui sono gli antifascisti ad apparire mediocri opportunisti, oltreché traditori della patria; i partigiani fanno la figura di terroristi sanguinari, in particolare i comunisti. I capi polìtici della Resistenza, da Farri a Cadorna, sono citati da lontano con un tono di giornalistica oggettività. Solo a fatica - conoscendo il complesso di questa vicenda - riusciamo a intravedere tra le righe i tratti di una storia «comune» sia pure «divisa». Soprattutto a fatica identifichiamo in queste memorie i tratti di una storia «politica», non semplicemente la rappresentazione di un dramma fatto di odio, di passione, di eroismo, di morte. La cosa è sorprendente anche perché le memorie, pur scritte «a caldo», hanno subito interventi e ritocchi successivi, quando il disegno politico dell'antifascismo (non condiviso o non condivisibile da Costa) aveva acquistato i suoi contorni precisi. Invece, nonostante il realismo e l'efficacia della narrazione quotidiana, la visione di Costa rimane prigioniera di un fideismo impolitico. Ciò che conta per lui è la devozione assoluta al duce che trasfigura le stesse oscillazioni e incertezze del capo del fascismo. Paradossalmente di fronte al «fondamentalista» Costa vien fuori un Mussolini assai più «politico», meno abulico e meno allucinato di quanto non ci viene detto da altre fonti. ■ Costa, espressione del «puro volontarismo italiano», dimostra una grande ostilità verso il «gerarcume del passato». Posto alla guida della federazione milanese nella fase culminante più violenta della guerra civile, cerca di tenere a bada l'ala estremistica e illegalistica del brigatismo nero. Ma non ci riesce. In realtà è un problema oggettivamente difficile quello di tenere sotto controllo il mondo esasperato e rissoso del fascismo milanese. In cuor suo, proprio per la fedeltà al «fascismo primogenito» che vorrebbe far rifiorire dopo le compromissioni del regime, Costa «capisce» la violenza e la illegalità del brigatismo, pur disapprovandole. E' uno dei segni di contraddizione di quest'uomo che nella Rsi non vuole tenere separata la restaurazione della nuova legalità statale dalla rinascita del fascismo. «Qui si parla troppo, si grida troppo e si vuole questa o quella linea politica, ma penso di essere nel giusto nell'affermare che il nostro dovere è di vestire nuovamente la camicia nera e il grigioverde. Il nostro dovere è di ripristinare l'ordine pubblico, la disciplina, di riconquistare la stima e la fiducia del popolo. Se non si farà questo vorrà dire che non sapremo obbedire al duce. E' il momento dell'obbedienza assoluta e dell'esecuzione di ogni direttiva del capo». Come si vede, l'ultimo federale di Milano non può essere presentato come l'esponente di quella componente «nazionalpatriottica», che dopo l'8 settembre attraverso la Repubblica sociale di Salò combatteva in primo luogo i nemici della patria (ed eventualmente in questa veste anche i comunisti). Costa è rimasto innanzitutto un fascista. Comprensibile quindi il suo risentimento contro tutti coloro che cercano intese e accordi con il nemico (in particolare con l'antifascismo organizzato del Cln). Odia i cosiddetti «pontisti», cioè quegli esponenti moderati (magari filo¬ socialisti) che vorrebbero una transizione postfascista, che salvi (oltre che la loro pelle) l'ordine pubblico e qualche autonomia nazionale nei confronti dei vincitori. Da qui però anche lo sconcerto di Costa, negli ultimi giorni, per il comportamento possibilista di Mussolini di fronte all'eventualità di un trapasso contrattato dei poteri. Il fondamentalista Costa non sembra capire neppure la «politica» mussokniana. Detto questo, le sue memorie sono un documento importante per fare luce sugli ultimi giorni della Rsi. Anche in dettagli apparentemente minori. Descrivendo la giornata del 25 aprile ad un certo punto scrive: «Passai velocemente per le vie della città, deserte, con qualche passante timoroso che camminava rasente i muri e che quando si accorgeva che eravamo camicie nere sorridendo alzava il braccio nel saluto romano; ma avrebbe salutato con il pugno chiuso se si fosse accorto che era- vamo partigiani». Questa annotazione cinica, amara, ma che denota in fondo una sostanziale incomprensione dei sentimenti della popolazione, solleva una questione cruciale per la storiografia: l'atteggiamento appunto della popolazione in quei mesi, in quegli anni. Le memorie di Costa offrono un tassello significativo da utilizzare, da interpretare. Il federale milanese infatti si muove su un palcoscenico che ha più profondità: in primo piano ci sono le consistenti minoranze di coloro che si fanno avanti volontaristicamente nella Rsi come per un'ultima esaltante avventura. Costa ama ripetere che si tratta di gente giovane e spesso diseredata, gente del popolo. In occasione delle cerimonie fasciste le piazze milanesi sono sempre colme e «frementi». Ma quanto significativo è questo dato? Sullo sfondo infatti si sente una città sostanzialmente impaurita e chiusa in sé. Una città tuttavia che non vuole violenza e illegalità. Uno degli episodi emblematici (in verità agli mizi della vicenda qui raccontata) è l'assassinio del predecessore di Costa, il federale Resega. La tensione palpabile di quelle ore, che durante i funerali sfocia in una sparatoria dettata dal panico, è il segno di una città «galvanizzata» (come aveva scritto a suo tempo Leo Valiani) oppure è il segnale che l'azione armata della Resistenza sta toccando un limite pericoloso perché - come scrive Costa - «l'esecrazione per il delitto era stata unanime e veramente sentita»? Sono interrogativi aperti su una questione che la storiografia deve approfondire. Non a caso la memorialistica resistenziale ci ha lasciato segnali contraddittori. E' un problema importante - ripeto perché non è in gioco una pagina di psicologia collettiva ma le basi di quella che sarà la legittimazione popolare della Repubblica. Gian Enrico Rusconi Sapeva parlare agli operai delle fabbriche; disprezzava gli estremisti delle brigate nere e i partigiani «terroristi sanguinari» Una manifestazione durante la Repubblica Sociale

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