India, universo di parole di Claudio Gorlier

A 50 anni dall'indipendenza, i nuovi scrittori parlano inglese e «Granta» dedica loro un numero speciale A 50 anni dall'indipendenza, i nuovi scrittori parlano inglese e «Granta» dedica loro un numero speciale India, universo di parole Nozze d'oro letterarie con la libertà j] LONDRA I L protagonista di Ifigli delI la mezzanotte di Salman I Rushdie, romanzo ormai —=J classico dello scrittore indiano la cui notorietà non è dovuta purtroppo ai suoi cospicui meriti letterari ma anche alla condanna a morte pronunciata dagli ayatollah, nasce proprio alla mezzanotte del 14 agosto 1947, mentre scatta l'indipendenza dall'India (il 15) e il suo affrancamento dall'impero britannico. Sono passati cinquant'anni da quella data fatale, felice e insieme tragica, perché comportò il distacco di una parte dell'India storica con la nascita, tra contrasti sanguinosi e persino crudeli (e causa indiretta dell'assassinio di Gandhi), del Pakistan. Per celebrarla, una prestigiosa rivista letteraria inglese (peraltro stampata negli Stati Uniti), Granta, dedica il suo numero 57 a The Golden Jubilee, le nozze d'oro dell'indipendenza indiana. L'attenzione si rivolge soprattutto alla letteratura, naturalmente di lingua inglese, ma l'inquadramento generale, fissato dall'introduzione del direttore della rivista, l'inglese Ian Jack, spazia assai oltre, anche sulla scorta della sua esperienza di giornalista e di commentatore politico. L'India presentata da Granta è quella che figura nella cartina in apertura del fascicolo: l'India di oggi, rappresentata da una scelta di scrittori, di giornalisti e di fotografi che le appartengono, con due eccezioni, sulle quali ritorneremo più avanti. L'arco generazionale appare singolarmente ampio: parte addirittura da un centenario, lo scrittore e saggista Nirad Chaudhuri, nato nel 1897, assai discusso in India, e che dal '70 vive in Inghilterra, per giungere fino al suo quasi omonimo Amit Chaudhuri, che è del '62, vive egli pure in Inghilterra e al quale si devono due libri, tra i quali il romanzo A strange and Sublime Address (Un indirizzo strano e sublime) che lo ha collocato tra le personalità più rilevanti della letteratura di lingua inglese anche fuori dall'India. Ma la divaricazione forse più caratteristica si apre tra una delle figure carismatiche della letteratura indiana del Novecento, R. K. Narayan (le iniziali stanno per due lunghissimi nomi cui non si ricorre mai), e la trentasettenne Arundhati Roy. Di Narayan si possono leggere in italiano alcuni libri: l'ultimo, Una tigre per Malgudi, un romanzo di puro cristallo, è stato pubblicato di recente da Guanda. Ultranovantenne di Mysore, nell'India meridionale, Narayan esprime la quintessenza dell'arte narrativa indiana, nel senso che le sue storie, di massima contemporanee e spesso lineari, ricche di forza affabulatrice, sono permeate di riferimenti impliciti al mito, e i personaggi incarnano divinità ancestrali discese direttamente dal Ramayana o dal Gita, i supremi testi epico-religiosi in sanscrito. Roy è balzata dì prepotenza alla ribalta e il suo romanzo appena pubblicato in India, The God of Small Things (Il Dio delle piccole cose), apparirà tra breve in Inghilterra e negli Stati Uniti, acquistato a cifre favolose, in Italia da Longanesi, vincitore di una gara tra parecchi editori. La Roy, di professione architetto a Delhi, si potrebbe definire una scrittrice post-moderna, ricca di movimento e di dialogo, e certo accattivante anche per un pubblico occidentale. Se mai, l'obiezione che le viene mossa riguarda il fatto che, pur nella specificità del suo mondo indiano, essa sembra strizzare un poco l'occhio a quel pubblico. Altri nomi presenti nel fascicolo di Granta non sono ignoti da noi. Anita Desai è stata pubblicata con discreto successo; in quanto a Vikram Seth, il suo fluviale Un ragazzo giusto (Longanesi), che coniuga il placido trascorrere della narrativa indiana con il romanzo di costume occidentale ha avuto due edizioni nella traduzione italiana. La complessità dell'universo indiano emerge anche in testi tra letterari e documentari: le pagine di Urvashi Butalia, fondatrice a Delhi della casa editrice Kali, che pubblica libri di donne, riconducono al tragico periodo della cosiddetta Partition, la spartizione, cioè il distacco del Pakistan: Vikramma, un'anziana ostetrica in un villaggio presso Pondicherry, narra con vigorosa semplicità la propria vita. Veniamo alle eccezioni, e non sono da poco. Ecco una breve poesia di Michael Ondaatje, l'autore de II paziente inglese, il quale si dichiara ormai scrittore canadese mantenendo però una ferma lealtà per il nativo Sri Lanka. Poi la presenza più controversa, vale a dire V. S. Naipaul, esemplare per eccellenza della diaspora. Molto tradotto in Italia, è in effetti un caraibico di matrice indiana di Trinidad, si trasferì presto in Inghilterra, e pur se ni tempi recenti la sua visione dell'India appare carica di partecipazione, in precedenza i suoi giudizi a! vetriolo - basta un titolo, India, una civiltà ferita - gli procurarono odi o rancori piuttosto aspri. Ma qui veniamo al nocciolo di questo numero di Granta, che alterna ai testi di autori indiani contributi di inglesi, fondamentalmente storico-sociologici. Leggendoli si coglie un timbro inequivocabilmente - come dire? - post-coloniale, in cui l'interesse e la simpatia non escludono valutazioni critiche talora maliziose o britannicamente paternalistiche. Ne ho parlato nei giorni scorsi a Londra con amici indiani, e in tutti ho rilevato una sorta di ironica reazione. Uno scrittore dello Sri Lanka, Romesh Gunesekera, autore di un affascinante ro- manzo da poco pubblicato con notevoli consensi critici e di pubblico da Frassinelli, Barriera di coralli, mi diceva con un indulgente sorriso che questi compromessi sono discutibili e inevitabili. Gunesekera è fonte non sospetta, visto che ha collaborato in passato a Granta; egli mi faceva notare, in più, la situazione ambigua di chi, come lui, vive ormai ni Inghilterra e viene guardato con sospetto in patria, mentre rimane inesorabilmente «altro» nel Paese di adozione. Un'ultima, e peraltro cruciale, osservazione, investe il problema della letteratura indiana in lingua inglese. Reca linfa nuova, e offre un timbro di particolare originalità. Noi, ha insistito Rushdie in un suo saggio, non scriviamo come gli inglesi: non vogliamo, non possiamo. Ma si tratta di un privilegio, nel senso, Rushdie aggiunge, che una simile scelta ci rende liberi. Già, ma la letteratura indiana in inglese costituisce, si noti bene, la punta di un iceberg. Esistono letterature vivacemente originali in varie lingue indiane, e spesso gli indiani ci rimproverano di non conoscerle, di non tradurle, con il rischio di una visione distorta dell'India. Un esempio fra i tanti? Il malioso romanzo popolare in bengali Pather Panchali di Bibhuti Bhushan Benerji, del 1929: ne esiste un'ottima traduzione inglese. Sarebbe il caso, in occasione del cinquantenario dell'indipendenza, di commeiare ad aprire una finestra su questo mondo sconfinato. Claudio Gorlier A destra, R. K. Narayan, una delle figure carismatiche della letteratura inglese del '900; a sinistra, la giovane Arundhati Roy