Giugno,l'ora dell'esilio
Giugno, Poro dell'esilio Giugno, Poro dell'esilio Così l'Italia ripudiò la dinastia DAL TRONO ALLA CADUTA ACCADDE mezzo secolo fa, all'inizio della soffocante estate del 1946. Il 2 giugno gli italiani, chiamati al referendum istituzionale, scelsero la Repubblica e i Savoia dovettero abbandonare il Paese e partire per l'esilio: Umberto II, il «re di maggio», si rifugiò, da solo, in Portogallo mentre sua moglie Maria José e i 4 figli andarono a vivere in Svizzera. L'anno dopo, 28 dicembre 1947, si spense settantottenne ad Alessandria d'Egitto, il patriarca abdicatario della famiglia, Vittorio Emanuele III che non avrebbe mai voluto lasciare il trono ma al quale De Nicola aveva ingiunto nel 1944 di farsi da parte dicendogb crudamente: «Maestà, quando i re perdono le guerre devono andarsene». Così la monarchia venne sconfìtta dal voto popolare ma i sostenitori della dinastia sabauda non si arresero subito e facilmente. Il 7 giugno 1946 infatti il leader monarchico Selvaggi presentò ricorso in Cassazione contro i risultati del referendum che avevano dato vittoria alla Repubblica con uno scarto di 2 rnilioni e 8596 voti sulla monarchia. Selvaggi sosteneva che la cifra non era valida perché non si era tenuto conto delle schede bianche o nulle e questo malgrado l'articolo 2 del decreto luogotenenziale prescrivesse che la maggioranza doveva essere formata dalla metà più uno «degli elettori votanti». Romita, ministro dell'Interno, replicò che il decreto citato da Selvaggi stabiliva, all'art. 17, che la Cassazione doveva procedere soltanto «alla somma dei voti attribuiti alla Repubblica e quelli alla monarchia in tutti i collegi» e quindi, «proclamare i risultati del referendum» e così era avvenuto. Ma se il ricorso di Selvaggi fosse stato accolto il vantaggio della Repubblica sarebbe sceso da 2 milioni di voti a 500 mila se non a 200 mila e in tal caso - divenuto così esiguo lo scarto - si sarebbero aperte nuove prospettive anche perché non avevano votato gli italiani di Trie¬ ste e della Venezia Giulia, né le migliaia di ex prigionieri di guerra non ancora rimpatriati. Tuttavia se Umberto II avesse vinto il referendum avrebbe mantenuto in vigore lo Statuto Albertino, creata una Corte Costituzionale e compiute le necessarie riforme, prima fra tutte quella del Senato. Con cautela, perché non si allentassero i vincoli con lo Stato, avrebbe concesso le autonomie regionali. In più, avrebbe voluto che l'Italia partecipasse a una superpotenza Europa in grado di inserirsi con autorevolezza fra Stati Uniti e Russia. In politica interna, probabilmente, non sarebbe stato contrario aU'immissione dei socialisti nel governo, e pensava a Nenni e a Saragat. La storia dei Savoia e dei loro discendenti, nei mille anni cominciati con Umberto Biancamano, si concluse così. Era stata una dinastia che, nel bene e nel male, aveva legato nome e destino a quelli dell'Italia: da Vittorio Emanuele II, «re galantuomo» che dei Savoia aveva La partenza di Umberto II per l'esilio e, a destra, Enrico De Nicola il gusto dell'intrigo, che teneva in eguale sospetto artisti e intellettuali, autoritario e passionale, e che tuttavia aveva saputo allargare il regno all'intera penisola, al nipote Vittorio Emanuele III, re con un senso spiccato della Casa e delle sue prerogative, un vero sovrano del Settecento, che guardava con nostalgia ai tempi dell'avo Vittorio Amedeo II quando i mutamenti di fronte erano giudicati con criteri politici, e non morali, e al pari dei suoi antenati savoiardi vedeva la guerr- iei termini classici di potenza, espansione e ricchezza da ac¬ quisire. Sarà lui che incoronandosi nel 1939 re d'Albania commenterà con disprezzo: «Fare una guerra per prendere quattro sassi». Ma fu anche uomo gretto, bigio, incapace di generosità e di riconoscenza (non andò neppure ai funerali di Giolitti). Suo figlio Umberto II, principe obbediente e insignificante, bello, gran sorriso cinematografico, fu tenuto costantemente, e a torto, nell'ombra (perché, ammoniva suo padre, «in Casa Savoia si regna uno alla volta») e pure capì l'abisso della «fuga ingloriosa» del settembre '43. Quando dovette partire per l'esilio E De Nicola disse «Re che perde se ne va»
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