Abbado fra i segreti di Otello di Sandro Cappelletto

Abbado fra i segreti di Otello Intervista con il maestro a Torino per dirigere i Berliner Philharmoniker al Teatro Regio e al Lingotto Abbado fra i segreti di Otello Nella tempesta di Verdi il dramma del potere STORINO EI suoi saggi critici Tornasi di Lampedusa scrive che gli italiani conoscono solo YOtello di Verdi e Boito. E aggiunge: «Purtroppo». Maestro Abbado, lei toglierebbe l'avverbio? «Anch'io, quando da ragazzo ho visto per la prima volta le opere che Verdi ha tratto dai testi di Shakespeare, ho pensato fossero meglio dell'originale. In verità, non conoscevo ancora il teatro di Shakespeare, la sua genialità. Non sono d'accordo con Tornasi di Lampedusa; i due Otello coprono universi diversi e rimangono unici nel loro genere. Dire "purtroppo" non ha molto sen- so». della Crescendo, è restato stessa opinione? «No. Shakespeare rimane l'apice, Verdi ha creato una mirabile caratterizzazione dei personaggi. Le differenze dal dramma all'opera sono molte, e una essenziale; nel testo letterario, Jago non è così feroce». E' cresciuto anche Verdi, dopo il suo primo incontro con Shakespeare, legato a Macbeth? «Così vecchio, e ancora con un'energia tale da voler riscrivere il concertato finale del terzo atto! Più passano gli anni e più è moderno nella concezione di una continuità musicale che diventa continuità drammaturgica». Le lettere di Verdi a Ricordi, dopo la prima del 1887 alla Scala, insistono sul protagonismo di Jago: «asolare Jago perché possa dominare». Sembra affascinato dalla sua perfidia. «Jago pronuncia una frase tremenda, mentre Otello è a terra, tramortito: "Il mio velen lavora. / Chi può vietar che questa fronte / io prema col mio tallone?". Verdi e Boito considerano Jago con maggiore ferocia. Evidentemente, il bisogno-, il dramma del potere, a qualunque costo, è un argomento che continua ad appassionare il compositore. E' un punto sul quale abbiamo molto ragionato con Ermanno Olmi: per lui, l'odio di Jago è motivato anche dal terrore per la supremazia virile del generale moro. Esistono almeno sette lettere in cui Verdi afferma di non essere contento del finale del terzo atto così come veniva normalmente eseguito. Preferiva il finale scritto per Parigi: non è una versione ridotta legata alle musiche per il balletto, anzi rende più evidenti le trame di Jago». Anche lei sente il fascino di questo personaggio? «Solo quello musicale! E intendo sottolineare lo spazio che Verdi gli concede. E' una figura terribile, non vorrei mai avere una persona simile come amico, o come consigliere. Del resto, è una considerazione che fa lui stesso: una simile malvagia grandezza esige la soUtudine». Al festival di Pasqua di Salisburgo, ha diretto, oltre a questo «Otello», prima «Elettra» con la regia di Lev Dodin, poi «Wozzek» nell'allestimento di Peter Stein. Il prossimo anno, ad Aix-enProvence, incontrerà Peter Brook per un nuovo «Don Giovanni». Herbert von Karajan è stato spesso tentato dalla regia d'opera. Lei? «Perché privarsi della possibilità di lavorare con dei maestri di questo livello? Ai nomi che ha citato, mi piace aggiungere Andreij Tarkovskij, un artista geniale, creatore di un indimenticabile Boris Godunov, nell'edizione creata assieme per il Covent Garden di Londra e vista di recente anche a Torino. Ci sono direttori e registi che si incontrano un giorno prima della prova generale: un metodo contrario alla mia mentalità. La preparazione, l'avvicinamento progressivo al lavoro sono decisivi e devono essere progettati e seguiti assieme: un'opera di Verdi non si può preparare in poco tempo. Soprattutto di questo Verdi estremo». Perché ha voluto questo incontro con Olmi, il primo dopo un lungo reciproco inseguimento, iniziato ai tempi della sua presenza alla Scala? «E' molto semplice. Per la sua umanità, che emerge chiaramente dai suoi film, penso ad esempio a L'albero degli zoccoli, e dalle regie liriche. Firma una regia ogni due-tre anni, con ritmi assolutamente personali. Ma appena si alza il sipario, non hai dubbi: "Questo è un Olmi", dici». Dopo questa fase di preparazione comune, è sempre convinto dei risultati? «La sintonia tra direzione e regia è decisiva per la riuscita di uno spettacolo. Purtroppo, non mancano i casi contrari, dovuti ad un lavoro superficiale. Ma sintonia non vuol dire occultamento delle rispettive personalità: capita anche il momento in cui un direttore può avere un punto di vista diverso rispetto a certe scelte. Ma se ha stima e fiducia nel regista, la ricerca della comprensione reciproca prima o poi arriva ad un risultato omogeneo». Dopo questa ripresa di «Otello», lei andrà a Palermo per inaugurare il Teatro Massimo, che ricomincia a vivere dopo ventitré anni. Era stato chiuso nel 1974: per tre mesi, si disse allora... «Una vicenda triste. Ora rinasce un progetto e appena si è pro¬ spettata la possibilità, i Berliner e io abbiamo voluto essere presenti. Provo un'emozione profonda, i miei legami, familiari e culturali, con la Sicilia sono antichi: mio nonno materno insegnava papirologia all'Università di Palermo, mia madre, anche lei palermitana, scriveva libri per ragazzi ispirati a racconti siciliani e all'Oriente persiano. A Milano, quando studiavo al Conservatorio, frequentavo la classe di letteratura italiana tenuta da Salvatore Quasimodo. Poi l'amicizia con un uomo straordinario come Gesualdo Bufalino, così attento anche alle vicende della musica. E' stato lui a suggerirmi di eseguire alcuni momenti de II canto sospeso di Luigi Nono in occasione del concerto per il bicentenario del Tricolore». Lei è un direttore curioso della musica contemporanea. Oggi c'è un linguaggio musicale di riferimento, oppure prevale la moltiplicazione delle tendenze? «Come è sempre accaduto in tutte le arti, ci sono state e continuano ad esserci delle differenze tra i grandi autori e gli artisti di minore valore. Compito degli interpreti è cercare di capire e proporre i migliori, ricordando che la critica e il pubblico non sempre hanno accolto con favore le novità. Lo stesso Mahler era persuaso che la sua Sesta Sinfonia avrebbe avuto bisogno di quarant'aimi per essere compresa. Oggi un interprete deve aver coraggio nelle scelte». «Non essere né dio, né re, ma salire lì: sul podio»: la celebre battuta di Wagner. Il direttore come demiurgo? «Decisi di diventare direttore a sette anni, quando entrai per la prima volta alla Scala. Dal loggione, un uomo, che mi sembrava piccolissimo, stava dirigendo un'orchestra, la stava facendo suonare meravigliosamente: era Antonio Guamieri, un grande direttore. Non ebbi dubbi, allora. Adesso, dopo quarant'anni di lavoro, so che dirigere vuole dire soprattutto cercare di conoscere e approfondire 0 più possibile, per poi comunicare». Sandro Cappelletto Attesa per l'opera che va in scena V8 maggio con la regia di Ermanno Olmi Qui a destra, il maestro Claudio Abbado; sotto, Giuseppe Verdi

Luoghi citati: Lampedusa, Londra, Milano, Palermo, Parigi, Salisburgo, Sicilia, Torino