La grande caccia agli ayatollah

La grande caccia agli ayatollah [ Terrorismo e armi atomiche: l'Iran è considerato ormai un nemico più letale di Saddam La grande caccia agli ayatollah Washington prepara l'Operazione Teheran IL NUOVO AVVERSARIO [ WASHINGTON DAL NOSTRO CORRISPONDENTE La settimana scorsa Peter Tarnoff, il numero tre del dipartimento di Stato che tra pochi giorni lascerà il posto a Thomas Pickering, stava tranquillamente cominciando a svuotare il suo ufficio quando è stato chiamato da Madeleine Albright per un'ultima, urgentissima missione. Tarnoff è partito in tutta fretta per una visita all'Aia, Londra, Parigi e Bonn («Non c'era tempo per una fermata a Roma», spiegano al dipartimento di Stato). Scopo principale del suo blitz: accertarsi che gli ambasciatori europei, richiamati in seguito al verdetto di una corte tedesca sulle responsabilità di Teheran per l'omicidio di quattro curdi nel 1992, non fossero in procinto di tornare in Iran. Ma Tarnoff aveva anche un secondo obiettivo: sondare gli umori degli europei per capire se, dopo la decisione della Corte tedesca, era finalmente possibile convincerli a far fronte comune contro il regime iraniano, imponendo pesanti sanzioni economiche. Una prima indicazione sull'esito della sua missione si potrà avere già oggi a Lussemburgo, dove i ministri degli Esteri dell'Unione europea si riuniscono per affrontare il tema dei rapporti con Teheran. Quattro anni fa l'amministrazione Clinton ereditò una linea politica che puntava a isolare l'Iran dal resto della comunità internazionale con un embargo unilaterale. Bill Clinton ha ulteriormente indurito la posizione americana l'anno scorso facendo sua la legge D'Amato, che mira a punire chi investe in Iran. E questa legge continua ad essere il principale terreno di scontro tra americani ed europei nella gestione dei rapporti con Teheran. Gli americani hanno sempre deriso la linea europea del «dialogo critico» con l'Iran, chiamandolo a volte «il monologo critico». Quando la corte tedesca ha riconosciuto la responsabilità di Teheran nell'attentato del 1992, in cui persero la vita quattro esponenti del movimento curdo, l'amministrazione Clinton disse in buona sostanza: «Ve l'avevamo detto». Ma questo atteggiamento vagamente condiscendente cela in realtà una crescente frustrazione. Perché così com'è, anche la politica dell'isolamento portata avanti dagli Stati Uniti con tanta insistenza, ma in perfetta solitudine, si è dimostrata inefficace. E si arriva al paradosso che Tarnoff viene spedito in Europa per costruire un fronte comune contro l'Iran proprio mentre la politica americana verso Teheran è in piena tensione a Washington. Nel Congresso repubblicano 0 sentimento anti-iraniano, se possibile, continua a crescere. La legge D'Amato non è considerata abbastanza severa e si vuole indurirla (oggi vieta investimenti superiori ai 40 milioni di dollari; si vor¬ rebbe abbassare ancora quel limite). Allo stesso tempo il Congresso preme perché l'amministrazione ordini una rappresaglia contro l'Iran per il suo ruolo nell'attentato di Khobar, in Arabia Saudita, in cui 19 americani persero la vita il 25 giugno scorso. Ma esiste una chiara responsabilità dell'Iran per quell'attentato? Gli occhi dei servizi di sicurezza americani rimangono puntati sul processo che si sta celebrando hi Canada a Hani Abd Rahim Sayegh, l'uomo accusato di aver partecipato all'attentato e sospettato di essere stato in contatto con i vertici iraniani. Pare che Sayegh abbia vuotato il sacco. Ma l'Fbi, che tra l'altro è ai ferri corti con questa amministrazione, mantiene uno strettissimo riserbo sulle informazioni che ha. E il ministro della Difesa William Cohen ha messo le mani avanti dicendo che un legame con Teheran non è ancora stato stabilito. Ma l'amministrazione ha fatto già capire che se quel legame sarà stabilito, la rappresaglia diventerà inevitabile. Ma la rigida linea americana verso l'Iran ha anche i suoi avversari qui a Washington. Proprio in questi giorni la rivista Foreign Affairs, organo del vecchio establishment della politica estera che ruota attorno al Council on Foreign Relations, ha pubblicato un articolo che fa a pezzi la strategia dell'isolamento che gli Stati Uniti perseguono e cercano di imporre agli altri. Zbigniew Brzezinski e Brent Scowcroft, i due ex consiglieri per la sicurezza nazionale che hanno firmato l'articolo, criticano la strategia del «doppio isolamento» adottata da Washington nei confronti di Iran e Iraq. L'Iraq di Saddam Hussein - scrivono - va tenuto in una «camicia di forza» che di tanto in tanto va risistemata per tener unito il fronte degli alleati. Ma l'Iran è un'altra cosa, «una sfida geopolitica molto più grande e complessa da parte di un Paese che ha un notevole potenziale militar-economico, e una tradizione imperiale». Aggiungono i due ex consiglieri: «La stridula campagna americana per isolare l'Iran non solo è fallita ma finirà per spingere il regime di Teheran nelle braccia di Mosca. Le sanzioni unilaterali sono state un errore. Tutta la linea americana è ormai ad una impasse, e va riesaminata». Brzezinski e Scowcroft riconoscono l'utilità di eventuali rappresaglie militari contro azioni anti- americane. Ma aggiungono che «alla politica del bastone bisogna aggiungere anche un po' di carote» per incoraggiare gli iraniani a modificare il loro comportamento, su due fronti in particolare: programma nucleare e terrorismo. In altre parole, è arrivata l'ora di riconoscere gli errori del passato e di cercare un dialogo costruttivo con Teheran. L'articolo di Foreign Affairs ha fatto molto rumore a Washington, e aperto un importante dibattito. E quel rumore, quel dibattito sono musica per le orecchie degli europei. Ma fino a che punto le proposte avanzate da Brzezinski e Scowcroft stanno facendo presa suU'arnministrazione Clinton? A sentire dipartimento di Stato e Casa Bianca, meno di quanto si crede in giro: «L'Iran continua a fomentare il terrorismo islamico, conti¬ nua a portare avanti un programma nucleare ad alto rischio e continua il suo riarmo convenzionale - principale minaccia alla stabilità della regione». La possibilità di una vera e propria confrontation nel Golfo Persico non è da escludere. Questa settimana l'Iran ha tenuto imponenti manovre militari nell'area. Alla fine dell'esercitazione il generale Mohsen Rezaieh ha detto spavaldo: «Possiamo tenere aperto lo Stretto di Hormuz. E possiamo anche chiuderlo». Gli americani considerano 0 controllo dello Stretto, dove passa un quarto dell'approvvigionamento mondiale di petrolio, un loro interesse vitale. Per cui oggi più che mai - questo è il messaggio'deU'amministrazione alla vigilia dell'incontro di Lussemburgo - è opportuno impostare una linea dura insieme agli europei. «Le voci di un ripensamento americano non vanno prese sul serio», assicurano al dipartimento di Stato. «Sono gli iraniani che le mettono in giro. Per tenerci divisi dagli europei». Andrea di Robìlant L'unico timore è che gli europei vogliano di nuovo dialogare Brzezinski e Scowcroft: finiranno nelle braccia di Mosca Iran: parate dell'esercito e dei Pasdaran