Carnefici, complici e vittime La pulizia etnica mascehrata da guerra di Domenico Quirico

Carnefici, complici e vittime Carnefici, complici e vittime La pulizia etnica mascherata da guerra ANALISI DOVE MANGA Fi TTiTPPO Grandi è il responsabile dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati nello Zaire orientale. Un giovane professionista, un manager del soccorso umanitario che non ha dimenticato, come purtroppo troppi coDeghi, che le cifre sui fogli della sua scrivania non sono oggetti, statistiche, ma uomini, donne, bambini. Alcune settimane fa mi raccontava con emozione il primo incontro con il «suo» popolo disperato e perduto sulle rive del fiume Zaire, che va a zonzo, indifferente, tra le foreste impenetrabili del Kivu. «La strada, appena terminati i combattimenti tra i soldati di Mobutu e i ribelli di Kabila, era ancora pericolosa e impraticabile. Si poteva raggiungere la zona dov'erano radunati i profughi soltanto con un piccolo aereo. Se ne stavano aggrappati al fiume, una turba immensa e priva di tutto. L'aereo, prima di individuare il posto dove atterrare, compì una larga virata allontanandosi dal fiume. Quando sono sceso tra loro mi hanno raccontato che quello era stato il momento più terribile. Avevano pensato: ecco, anche loro se ne vanno, siamo definitivamente perduti». Adesso quei quasi centomila profughi sono scomparsi, volatilizzati, inghiottiti dal sudario della foresta. E nelle parole di Filippo Grandi ho ritrovato l'eco di quella febbrile emozione: «Sono sgomento. Quattro giorni fa lì c'era un campo, gente malata, affamata, troppo debole per camminare. Dov'è andata?». Sono parole giovani e dure, che non bisogna assolutamente fare invecchiare. Da questa domanda si deve partire. Perché nello Zaire orientale, in questi mesi, in questi giorni, in queste ore si sta commettendo un atroce delitto, quello che nell'alfabeto dell'orrore del secolo si chiama genocidio. Ci sono le vittime: i profughi Hutu, cento, duecentomila. Ci sono gli assassini, le truppe Tutsi del Ruanda e i loro manovali zairesi. Ci sono i testimoni (pochi): missionari, preti, giornalisti che hanno il coraggio di parlare. E quelli invece (e sono tanti) governi, organizzazioni umanitarie, che sanno e fanno finta di non vedere. E allora bisogna subito cómin- dare a chiamarli complici. Perché questa volta non è l'indifferenza verso gli eterni molesti turbamenti africani. C'è una riserva mentale vigile e dissimulata dietro questi silenzi, un piano politico. Che si occulta invocando la sofistica scusa del minor male: sapevamo, ma speravamo di strappare agli assassini il regalo di qualche vittima dimenticata. O gettando avanti il ragionamento che «oggettivamente» intervenire a favore degli Hutu fa il gioco del dittatore Mobutu. Gli assassini. Nello Zaire si combattono molte guerre incastonate l'una nell'altra, Si lotta per cacciare un vecchio dinosauro come Mobutu e fare posto a giovani lupi dai denti aguzzi come il ruandese Kagame e l'ugandese Museweni. C'è la battaglia «coloniale» tra Stati Uniti e Francia per controllare il forziere minerario dell'Africa australe. C'è la senile rivincita di un rivoluzionario intristito dalle sconfitte come Kabi¬ la che crede di rivivere i fiammanti Anni Sessanta. Ma uno degli scopi della guerra sono proprio loro, gli Hutu, fuggiti dal Ruanda nel '94 per allontanarsi dalla vendetta dei Tutsi, fratelli crudeli. Il progetto è scientifico, metodico, una soluzione finale del problema etnico che gli squadroni della morte Tutsi realizzano con industriale efficienza, ben nascosti dietro la finta annata zairese di Kabila. Le vittime. Quando ti vengono incontro ti accorgi che nessuno di loro è al di sopra dei 40-50 anni e al di sotto dei 10. Quelli sono già morti. Nessuno potrà mai ricomporre in una pietosa odissea le centinaia di chilometri che hanno percorso con le baionette nelle reni, senza cibo, leccando l'acqua rimasta sulle foghe, nudi, ossessionati dal grido: arrivano, arrivano, ci uccidono. Sono esseri umani ridotti alla scorza, essiccati nei corpi e nel dolore, che ripetono: noi siamo già morti. I complici. Come avviene in tutti i delitti sono le date che danno le prove della premeditazione. Sono passati due anni da quando un milione di profughi ha trovato rifugio nell'immenso campo di Goma. Dalle idee ben acconciate deU'«imperialismo umanitario» tutto quello che è upcito è un rivolo di cibo per tenerli in vita. Nessuno si è preoccupato di inventare una strategia per riportarli a casa, di imporre al regime ruandese, sotto un rigido controllo internazionale, di avviare un processo di pacificazione. Quando una parte dei profughi, travolti dall'avanzata dei ribelli, ha dovuto, a piedi, riattraversare la frontiera, la pratica è stata frettolosamente chiusa. Chi ha controllato quanti erano rimasti? E se, in Ruanda, subivano vendette e vessazioni? Nessuno. Il commissario europeo Emma Bonino, i missionari, Médecins sans frontières lanciavano allarmi, rischiavano di persona per il solo fatto di essere testimoni e di non tacere. Ancora venerdì il Dipartimento di Stato americano, dopo un blando rabbuffo a Kabila, ha ribadito che «tutto questo è troppo poco per parlare di genocidio». Occorrono delle prove, forse mia diretta della Cnn. Ma le telecamere non possono andare nella foresta, sono a Kisangani e a Goma a fare «colore» con i guerrieri-bambini di Kabila che gridano in coro «mangeremo Mobutu». Hillary Clinton è stata poche settimane fa in Africa: entusiasta e volitiva come sempre ha annunciato che, per la prima volta nella loro storia, gli africani hanno più motivi per sperare che per disperarsi. Peccato che i centomila fantasmi del Kivu siano troppo esausti per sorridere. Domenico Quirico

Luoghi citati: Africa, Francia, Ruanda, Stati Uniti, Zaire