Anglo-aborigeni, la vendetta

Anglo-aborigeni, la vendetta Dall'Australia al New Jersey, con l'inglese «corrotto» trionfa la letteratura delle culture divise Anglo-aborigeni, la vendetta La lingua? Un 'arma contro il colonialismo mN ragazzo bianco che cade da una nave al largo delle coste australiane e cresce in mezzo agli aborigeni; una giovane donna in calore su un'isola caraibica circondata da un mare che è una tomba e una prigione; un ragazzino dominicano diviso tra il ricordo dei tristi Tropici e la realtà dei sobborghi del New Jersey. Tre storie di persone spaesate e in bilico tra due mondi, due lingue e due culture - inglese e francese patois, inglese e spagnolo dialettale, inglese e la lingua rotonda degli aborigeni. Persino i nomi di questi personaggi sembrano corruzione dell'inglese e il risultato di un colonialismo che ha diviso il mondo in vincitori e sconfitti, colonizzatori e colonizzati: Gemmy invece di Jimmy, Xuela Claudette Richardson, Yunior invece di Junior, o di Junot. E' molto più che un caso il fatto che il tema di esistenze divise tra due mondi attraversi alcune delle più belle e attese opere di narrativa di quest'anno. In Ritorno a Babilonia che Frassinelli pubblicherà a maggio e di cui parliamo con l'autore - l'australiano David Malouf ha romanzato la vera storia di Gemmy Morril, un Raspar Hauser dell'emisfero australe che intorno al 1840 sbucò dal bush stracciato e selvatico come un aborigeno, balbettando di fronte ai pionieri inglesi esterrefatti «sono un oggetto (e non un soggetto, cioè suddito) britannico». «Magnifico esempio» dice Malouf che come ogni anno ha raggiunto da Sydney la sua casa nella Maremma toscana, «di uno che capendo male capisce invece tutto». E poi L'autobiografia di mia madre in uscita da Adelphi di Jamaica Kincaid, scrittrice di Antigua trapiantata nel Vermont, ex redattrice del New Yorker, ex docente a Harvard, e ora voce potente e ammiratissima di una narrativa densa come melassa ma anche spaventosamente amara. E poi ancora il libro di un esordiente, un «caso» che ha conquistato i critici e i lettori americani, il ventisettenne Junot Diaz, dominicano trapiantato negli Usa, che nei dieci racconti in uscita da Bompiani col titolo A picco rivela un talento assoluto, capace di trova¬ re nell'inglese parlato dai ragazzi del New Jersey misto allo spagnolo dialettale di Santo Domingo, il sale di storie che pugnalano al cuore. Ciò che hanno in comune questi libri molto diversi non è solo la ricchezza e la varietà della lingua che ha distinto la prima ondata di scrittori figli dell'Impero, Rushdie e Kureishi. Ghosh e Ondaatjie e via dicendo. Qui il tema è quello della deformità spirituale del colonialismo, lo spaesamento di chi è stato rapinato del passato ed è consapevole della delusione che pesa sul proprio presente e sul futuro. Nell'Autobiografia di mia madre la sensuale, perversa, nichilista Xuela - figlia di un poliziotto corrotto dell'isola di Dominica - che ha nelle vene il sangue caraibico della madre e quello scozzese e africano del padre, dice: «Non mi importava la mia disfatta, mi importava solo che dovesse durare tanto a lungo». Nei suoi Caraibi come altrove la distinzione tra chi ha il potere e chi lo subisce comincia a scuola. «L'Impero britannico» sono le prime parole che Xuela imparerà a leggere. La lingua è strumento di dominio. «Chi vive in una società che è il prodotto del colonialismo è costretto a porsi domande esistenziali molto concrete» dice David Malouf, il quale a sua volta è il prodotto di due culture diverse, cristiano libanese da parte di padre e anglo ebraica da parte di madre. «C'è la questione della lingua, dell'inglese che è stato tradotto e imposto su un altro clima e un altro paesaggio, e che ci obbliga a chiederci quale sia il rapporto tra le parole che usiamo e il mondo che ci circonda, perché non sono in sintonia. Così come è problematico l'esser venuti da molto lontano per occupare una terra che era già abitata. Noi ci chiediamo continuamente perché siamo lì, una domanda che in Europa nessun europeo si porrebbe». La questione della lingua è anche il cuore del mondo di Junot Diaz, che nell'epigrafe al suo libro si chiede: «Come spiegare che non appartengo all'inglese ma non appartengo neanche ad altro luogo?». Nei suoi brutali racconti che hanno una strana qualità stra- ziante, un bambino che somiglia all'autore ha un padre lontano negli Stati Uniti, una casa col tetto di zinco bucato a Santo Domingo, un fratello maggiore e un compagno di giochi che chiama Mohammed Ah, e che chiama lui Sinbad, «i nostri nomi nordamericani». Entiende, mi novia, puto, chicas, malcriado sono parole che si affacciano continuamente in questa prosa colloquiale, a riprova della resistenza di Diaz all'assimilazione americana. Nei fatti, sia Yunior sia Junot emigrano a sette anni nel New Jersey per diventare adulti in un mondo di piccoli spacciatori e piccolo borghesi che vedono la spazzatura bruciare sulla linea dell'orizzonte. Laggiù non ci sono ragazze con cui fare l'amore in spagnolo. Solo chicas che chiamano il fidanzato «Dan», non Dan, «in un modo così dolorosamente gringo che mi fa bruciare gli angoli degli occhi». Ciò che davvero è cambiato in questi anni da V. S. Naipaul in poi, è che per gli autori del postcolonialismo andarsene non vuol più dire andare in Inghilterra. Jamaica Kincaide e Junot Diaz hanno scelto gli Stati Uniti e David Malouf, dopo un temporaneo esilio in Toscana, ha trovato il confronto con altre culture nella sua stessa Australia. «Là», dice, «a differenza dell'Europa dove siamo abituati a pensare che il nostro sia il solo modo di essere, si è costretti ad accettare che ve ne siano altri i quali non portano a quello che noi chiamiamo sviluppo e a cui diamo un significato positivo. Il mondo degli aborigeni è essenzialmente spirituale ed è all'opposto del nostro. Ma sta cambiando il modo con cui pensiamo alla storia, il modo in cui ci confrontiamo con la natura e il modo in cui pensiamo al posto da assegnare alla cultura occidentale in Australia». Inevitabilmente queste esperienze letterarie e umane approdano a conclusioni diverse. Xuela, l'inquietante sirena di cioccolato partorita da Jamaica Kincaid, fa del narcisismo l'espressione della propria ribellione e sposa un inglese a cui, sfilandosi il vestito dalla testa, ordinerà di mettersi in ginocchio per farla godere. Yunior diventa adulto in un mondo agro, mentre il suo autore Junot, che ha perso lo spagnolo alla prima ondata di insicurezza adolescenziale, mette invece in ginocchio l'editoria americana che ora si disputa il suo primo romanzo. E Malouf conquista l'Europa con questo Ritorno a Babilonia che vince l'Impac Dublin Literary Prize, un premio da 250 milioni di lire. Forse ha ragione lui quando dice che dobbiamo abituarci all'idea che non esiste più un inglese puro, perché «tutto l'inglese è locale». «In fondo non mi sono mai sentito un outsider», riflette a voce alta. «Potere controllare una lingua, esserne padroni, significa di fatto avere un potere assoluto sulla società». Ed è esattamente quello che questi libri stanno a dimostrare. Livia Maniera Arrivano da nazioni rapinate del passato: «Ma adesso possiamo non sentirci più degli outsider» Esce in Italia il libro di Jamaica Kincaid scrittrice di Antigua che ha conquistato i critici americani nglese «cor Salman Rushdie, Amitav Ghosh e Jamaica Kincaid in uscita da Adelphi Junot Diaz, scrittore dominicano trapiantato negli Stati Uniti