Il calvario dei prigionieri 126 giornate all'inferno di Mimmo Candito

Il calvario dei prigionieri 126 giornate all'inferno Il calvario dei prigionieri 126 giornate all'inferno DALLA FESTA AL DRAMMA ORMAI ce ne eravamo anche dimenticati, di quei poveracci. Ma 126 giorni debbono sembrare un inferno, a chi è arrivato in un posto che ancora non era Natale, ci si doveva fermare per non più di un paio d'ore, e invece è rimasto chiuso dentro fino a dopo Pasqua. Il 17 dicembre di un anno fa, i guerriglieri dell'Mrta presero in ostaggio i 700 invitati al banchetto dell'ambasciatore del Giappone. Dei 700 di quella sera, ieri sera ne erano rimasti dentro la villa «soltanto» 72. I guerriglieri chiedevano la liberazione di 400 loro compagni detenuti nelle galere di Stato; il presidente Fujimori aveva risposto che di liberare i condannati non se ne parlava proprio, e che la sola cosa possibile era un salvacondotto per i guerriglieri, se avessero lasciati liberi gli ostaggi. Così è andato avanti il braccio di ferro, e i giorni passavano tutti uguali. Dentro la villa, assediata dalla polizia, era nata una microsocietà con ritmi e dinamiche scanditi dalla necessità: sveglia alle 7, colazione, turnazione nella pulizia delle camere, gruppi di discussione, e pranzo alle ore 13; poi, la siesta, lettura, scrittura dei messaggi per i familiari, cena. Il cibo veniva portato dalla Croce Rossa due volte al giorno, il ricambio dei panni era fatto una volta la settimana, le lettere con i familiari venivano scambiate il martedì e il venerdì. Ma le finestre restavano tutte imbottite di dinamite, e i guerriglieri portavano addosso uno zainetto pieno di esplosivo. Questi 126 giorni erano già un record, e il clima psicologico era fortemente deteriorato. Tra gli «ospiti» della villa c'erano 3 ministri, tutti salvi, una ventina di generali, l'intero potere giudiziario del Perù, e i grandi manager delle imprese nipponiche. Se non ci fossero di mezzo i giapponesi, il sequestro non avrebbe battuto nessun record. Ma Tokyo nemmeno voleva che si parlasse di as- salto delle teste di cuoio, e Tokyo aveva solidi argomenti finanziari di convincimento. Questa storia sudamericana, alla fine, era diventata una faccenda tutta giapponese; e il giornalista che arrivava qui a indagare capiva subito che do¬ veva mettere il naso nella potente lobby nipponica, che ha in vetta il capo dello Stato, Fujimori (evidentemente di origine giapponese), e tutto il suo staff (di origine giapponese anch'esso). A Tokyo era il mattino del 18 dicembre quando le agenzie cominciarono a battere la notizia dell'assalto all'ambasciata in Perù (dove invece era ancora la notte del 17), ma già i primi giapponesi partivano, saltando a bordo dell'aereo che da Tokyo andava a Los Angeles. Era- no 11 inviati speciali e quattro troupe televisive, e riuscirono a prendere davvero al volo una coincidenza da Los Angeles per Lima. Si unirono ai loro colleghi che stavano arrivando da New York e Miami, e fu un colpo di fortuna; ma non poteva- no fallire: in Giappone, la notizia che un gruppo di guerriglieri peruviani aveva catturato l'ambasciatore e l'intera nomenklatura dell'economia nipponica riempiva la prima pagina di tutti i giornali. Se si conosce liliale forte spirito d'iden- tità collettiva leghi i giapponesi, si misura bene la violenza dell'impatto che quelle prime immagini dall'avenida Dos de Mayo procurarono sullo spirito del Paese. Era come un lutto nazionale, un intero popolo agosciato, ossessionato dal timore del massacro. Va detto che l'America Latina degli ultimi anni mostra storie poco rassicuranti per gli imprenditori giapponesi. La tentazione dello yen è evidentemente irresistibile sui gruppi e sulle bande che operano in queste terre: una lunga lista di sequestri di gente legata con gli investimenti nipponici qui ha punteggiato una cronaca che ancora naviga ambiguamente tra criminalità e politica, ma Tokyo ha sempre pagato, cercando di coprire con un silenzio discreto le trattative e la conclusione dell'accordo. E la paura del «contagio» è troppo forte. Due funzionari della Toshiba furono rapiti, un paio d'anni fa, in Colombia da una formazione guerrigliera, e la loro libertà costò un sacco pieno di quattrini. La stessa pratica ha dovuto essere svolta un anno fa in Salvador, con un alto manager nipponico; e due milioni di dollari sono stati pagati pochi mesi fa in Messico per riavere vivo, e in buona forma, il direttore di una filiale della Sanyo. Si può anche capire allora come, traumatizzati dall'assalto del Mita, i giapponesi abbiano fatto blocco compatto. Fino a ieri sera l'ambasciatore Aoki e 18 manager di alto livello erano in ostaggio dei guerriglieri; ogni parola in più avrebbe potuto causare danni imprevedibili. La valutazione di uno studio teorico del comando dell'Esercito, assistito da «consiglieri» yankee, diceva che in un'irruzione di commandos sarebbero morti 17 guerriglieri su 18, 14 teste di cuoio e da 60 a 65 dei 72 ostaggi. Una carneficina che però ieri non c'è stata. Mimmo Candito Il 17 dicembre il blitz dei guerriglieri durante un ricevimento La lunga trattativa il mediatore cubano il no di Fujimori e poi l'attacco

Persone citate: Aoki, Fujimori