Le mille stagioni del picconatore

Le mille stagioni delpicconatore IL PALAZZO Le mille stagioni delpicconatore IRIGE i cori nell'aula di Palazzo Madama, dice parolacce, prende sottobraccio Prodi sbeffeggiandolo davanti a tutti, ma se capita sbertuccia pure Berlusconi, non c'è dubbio, e sulla Bicamerale presidenzialismo o premierato? - si mette una mano in tasca, lancia per aria una monetina e fa testa o croce. Viene testa, cioè presidenzialismo: «E allora non vale!» sghignazza rimettendosela in tasca e ponendo fine al numero. Sulla crisi italiana, come si capisce oggi, Francesco Cossiga aveva capito assolutamente tutto, e prima di tutti. La questione - se di questione si tratta - è in che misura questa sua lucidissima preveggenza, questa sua consapevolezza al tempo stesso appagata e frustrata dagli accadimenti ne influenzino i pensieri, le parole, le opere e quindi l'immagine pubblica, invero sempre più contrassegnata da giochi, scherzi, paradossi, sfottò, ostentazioni, provocazioni, capovolgimenti ed incantamenti vari. Dietro ai quali pare a volte di scorgere qualcosa che non ha esattamente a che fare né con il buon umore,- né con un'ipotetica «seconda giovinezza» cossighiana, ma forse proprio con il loro contrario. S'intravede, cioè, una qualche forma di rabbia certo mascherata e magari pure addomesticata, e tuttavia accresciuta dalle continue candidature (presidenza del Consiglio, ministero Interno, presidenza Senato, presidenza Bicamerale) e soprattutto resa profetica dall'età. Una specie di furiosa ed invisibile energia che spinge l'ex presidente a ribaltare codici, confondere prospettive, offrirsi al pubblico come uno dei pochissimi soggetti in grado di produrre gesti dimostrando che le chiacchiere, appunto, sono soltanto chiacchiere. Ed ecco il Cossiga che scrive lettere e le recapita a mano, che recita poesie sull'assenza di Berlusconi al congresso del ppi: «Pò-pòpò-pò-pò/ presto andatelo a cercare!/E' in Brasile o alle Bermuda?/ oh, Dio mio, che sciagura...». Oppure che si fa I invitare al congresso del pds I e qui si mette a cantare l'In¬ ternazionale. Il Cossiga che tappezza il suo studio a Palazzo Giustiniani di ansiogeni cartelli: ((Attenzione, questo ambiente può essere sottoposto a controllo elettronico»; che si fa disegnare uno stemma privato e ci piazza dentro l'ulivo e la quercia; che candida Scalfaro per un secondo mandato al Quirinale, o regala ipampers al senatore Salvi, un triciclo al giudice Cordova... «E può anche darsi che io sia un zuzzurellone...» ha ammesso. 0 che «mi lasci trasportare dalla mia innocente follia». Ma il dubbio è che non si tratti né di zuzzerelleria, né di follia, tantomeno innocente. Su questa eventuale rabbia nobilmente senile, «oggettiva, non di sentimento, lucida, fredda, senza ombra di lagrime» ha scritto una splendida pagina di diario [La transizione infinita, Laterza) lo storico Gabriele De Rosa. Altri personaggi di questi tempi, per la verità, sembrano tenersela dentro debitamente camuffata, questa collera a sfondo profetico ed alta intensità comunicativa. Ma se nel professor Miglio, tanto per azzardare un micro repertorio, assume toni apocalittici, se in Mancuso si traveste da passione-ossessione, se nel politologo Sartori prende le forme del disprezzo accademico e in De Mita quelle della commiserazione per l'altrui incapacità, beh, dietro la rabbia di Cossiga, autentico Carmelo Bene del Palazzo, indovini la smorfia del sacro giullare shakespeariano: «Investitemi del costume di arlecchino/ lasciatemi dire la mia, e da parte a parte/ il sozzo corpo del mondo infetto ripulirò». Filippo Ceccarelli Bili |

Luoghi citati: Brasile