Blasfemo macello d'Algeria

9 Un massacro al giorno in vista del voto di giugno, il popolo vittima di una faida tra milizie Blasfemo macello d'Algeria In nome del Corano, contro il Corano ANALISI Ai LGERIA: è iun assemblaggio orrendo di morti ammazzati, di innocenti sgozzati come capretti, di feti cavati dal grembo delle madri e fatti a pezzi. «Pietà l'è morta» nel Paese dove perennemente fioriscono i gelsomini. L'«esperto» potrebbe concludere che l'imperniarsi della violenza omicida segna, in fatto, il principio della campagna elettorale: il 5 di giugno si terranno quelle elezioni legislative che l'autogolpe dell'I 1 di gennaio del 1992 impedì. Allora, esercito e nomenklatura, profilandosi la vittoria (al secondo turno) del Fis (Fronte islamico di salvezza), per non perdere il Potere strozzarono nella culla la democrazia appena nata, proclamando, a mo' di giustificazione, che l'avvento dei «barbuti» avrabbe «sicuramente impedito ogni forma di prassi democratica» in Algeria. Insomma, i brontosauri dell'esercito e del partito unico (l'Fln) per salvare la democrazia decisero di violare la democrazia stessa. Il Potere algerino (col tacito assenso di non poche cancellerie straniere) calcolava, costringendo il presidente Bendjedid alle dimissioni, di aver centrato due obiettivi con un solo colpo: liberarsi d'un «riformista pericoloso» che rifiutava apertamente la tutela dei militari; cancellare l'islamismo politicizzato del Fis. E male che fossero andate le cose, sarebbero bastati un po' di «incidenti», provocati dai servizi (istruiti dalla Stasi) per far spazzatura dei «barbuti». Così non è stato giacché con le pallottole non si elimina il malcontento, la rabbia dei senza lavoro, la disperazione del lumpenproletariat offeso dall'arroganza volgare dei nuovi ricchi ladroni. (Subito dopo la rivolta del cuscus, nel 1988, il primo ministro rivelò che gli arricchimenti illeciti ammontavano a 27 miliardi di dollari: l'equivalente del debito estero algerino). L'aborto procurato della democrazia ha iniettato nei miserabili una mostruosa flebo, immensa e veloce, composta di frustrazione e di violenza. E giorno dopo giorno, quasi insensibilmente, l'Algeria ha finito con lo sprofondare nella guerra civile. Che, a ben vedere, è una guerra contro i civili: contro quella so- cietà civile che muove la macchina-paese, stretta in una morsa infame: il fanatismo assassino dei ((barbuti» drogati dall'odio - la furia cieca d'un «apparato repressivo» gonfio d'orgoglio di casta, esaltato dall'impunità. Dal principio del 1997 i morti ammazzati ammontano a 455: almeno sino a questo momento. E' difficile la contabilità dei morti in un Paese dove «il fuoco della gehenna divampa e brucia [gli empi]» (Corano: XXIX-55), senza posa. Non c'è giorno, non c'è ora senza che le agenzie non diffondano notizie tenibili: autobombe, massacri, stupri, sacrifici umani. Riesce difficile «spiegare» l'agghiacciante recrudescenza della cosiddetta guerra civile soltanto con l'approssimarsi del voto di giugno. Una spiegazione più accettabile ci sembra risiedere in quella che Rodolfo Casadei definisce, lucidamente, la «privatizzazione della violenza». A partire dal 1995, il conflitto fra l'apparato di sicurezza e i guerriglieri ha sempre più assunto la fisionomia di «una logorante faida tra milizie». E' accaduto che nei primi due anni della «guerra civile» sessantamila uomini tra reparti d'elite dell'esercito e della polizia hanno combattuto le cellule armate, e non, della guerriglia islamista, sotto la guida del generale Lamari. In questi due ultimi anni, appunto con la «privatizzazione della violenza», il Potere ha creato una gendarmeria comunale di cinquantamila armati che funge da supporto a «operazioni mirate» dell'apparato di sicurezza. Al tempo stesso è stata promossa la costituzione di «milizie di villaggio» (sul modulo [fallito] vietnamita e/o salvadoregno) attualmente forti di sessantamila uomini che, «pur non godendo di alcuna legittimità giuridica, vengono retribuiti con denaro pubblico». Non sembra tuttavia che gli «illegittimi» di marca governativa siano capaci di soverchiare gli «illegittimi» di marca islamista a giudicare dagli impuniti massacri di quest'ultimi. Sempreché non si voglia accettare la tesi del professor Bruno Etienne, il famoso autore del bestseller L'islamisme radicai, secondo il quale le efferatezze attribuite al Già andrebbero divise fra quella galassia di gruppuscoli islamisti e «i vari clan di potere governativi» che starebbero alimentando «una tenebrosa, cinica strategia della tensione». Sulla stessa lunghezza d'onda £7 Ribat, una pubblicazione ispirata dai moderati del disciolto Fis, «dubita» dell'esistenza del Già, addirittura, se non altro così come viene descritto e propagandato. «Si tratta semplicemente di una manipolazione dei servizi segreti algerini intesa a consolidare il Potere e a ottenere un maggior sostegno dall'Occidente in generale, dalla Francia in particolare». Ma l'esercito che ruolo ha in tutta questa escalation di morte? In virtù della «privatizzazione della violenza», le forze armate pur riservandosi «interventi risolutivi» (impiego del napalm, dell'artiglieria, dell'aviazione) si è dedicato a un compito indubbiamente vitale per l'Algeria «che conta»: la difesa delle infrastrutture economiche, cioè i pozzi e gli impianti di lavorazione del gas e del petrolio; la difesa del Potere. Ne viene che quello algerino «sta diventando ogni giorno che passa un conflitto tra civili in armi, nel contesto del quale intere famiglie o comunità vengono sterminate per rappresaglia o per intimidire», sempre per citare il Casadei. Abbiamo dunque un'Algeria bifronte: quella «che conta», difesa con intelligenza strategica e implacabile determinazione - quella «miserabile» contro la quaìe si accanisce la furia dei cosiddetti afghani, gli estremisti islamici già allevati dalla Cia per combattere i sovietici hi Afghanistan, parenti stretti dei Talebani, cinici manipolatori del Corano come quest'ultimi, ovvero violatori blasfemi del Libro. I «barbuti» sgozzano le loro vittime innocenti e lo fanno secondo le regole tipiche della macellazione abituale e del sacrificio del montone a chiusura del Ramadan quando si celebra la festa gioiosa dello Aid el Kebir. Ma le regole riguardano animali, non persone. Il Corano parla di sacrifici animali e basta. Non solo: il Libro sacro raccomanda incisivamente di evitare all'animale sacrificato lo spettacolo degli altri animali con lui sgozzati. Al contrario gli afghani, sadicamente, costringono le proprie vittime, umane, a giacere sul fianco in modo che prima di morire veda¬ no chi gli sta accanto finire sgozzato. (La stessa bestialità delle SS alle Ardeatine. Kappler, Priebke, Hass fucilavano i patrioti a cinque a cinque, coi morituri costretti a calpestare i compagni trucidati prima di loro, e via cosi in una infame catena di macellazione umana). Un tempo, esattamente fino al 1993, donne e bambini venivano risparmiati dagli afghani finché, quattro anni fa, l'allora sceicco dei Groppi armati islamici non emanò un editto {fa twaì che aboliva l'intangibilità delle donne, dei bambini. Lo spregio della vita altrui, la sistematica umiliazione della persona non sono solo il frutto d'una demenza religiosa. Rispondono soprattutto a un disegno preciso: terrorizzare la «zona grigia» della popolazione (quella che chiede solo di vivere e lasciar vivere) in modo da proiettare nel mondo l'immagine di una Algeria allo sbando, di un Paese instabile nel quale sarebbe improvvido investire. Ma poiché l'Algeria «che conta» è blindata e, pertanto, macina business as usuai, gli afghani colpiscono gli indifesi, rapiscono i giornalisti o li uccidono anche se non sono pochi a sostenere che molti cronisti politici li abbia tolti di mezzo il Potere. Semplicemente perché facevano il loro dovere: criticavano il regime, de¬ nunciavano le sue corrusche faide. La torbida lobby politico-militare che da trentacinque anni occupa il Palazzo ha consumato al suo interno sacrifici cruenti in un susseguirsi sistematico di regolamenti di conti: attendiamo ancora una spiegazione onesta, non «sovietica», dell'assassinio del presidente Mohamed Budiaf, l'incorruttibile (giugno 1992) e del più recente attentato che ha ucciso, il 23 di gennaio, il leader sindacale Abdelhak Benhamuda che s'era dimesso dalla Ugta per fondare un partito di centro volto a sottrarre alla tutela dell'esercito il generale (in pensione) Zerual, attuale presidente della repubblica. Non c'è speranza dunque per l'Algeria come sembrano oramai temere Ignacio Ramonet, Gilles Kepel, Jean Daniel? Certamente non sarà il voto di giugno a salvare l'Algeria dall'autodistruzione. «L'unico rimedio è nella riconciliazione nazionale», dice Ben Bella, reduce dalla «prima tappa» della Campagna per la Pace che ha visto riunirsi in Madrid, nei giorni scorsi, i principali partiti dell'opposizione algerina, Fis compreso. Sono gli stessi uomini (un po' più vecclù - Ben Bella ha 81 anni), molto più stanchi ma sempre fiduciosi, che diedero vita alla «piattaforma di Roma» approvata grazie alla mediazione della Comunità (laicaI cattolica di Sant'Egidio, or è tre anni. Ma la «piattaforma per la pace» venne rifiutata dal Potere: contro i dialoghisti vinsero gli oltranzisti facendo leva sull'orgoglio nazionalista degli algerini ai quali fu detto che dietro Sant'Egidio c'era il Vaticano addirittura la Casa Bianca. E la via del dialogo fu smarrita. Ma Ben Bella e i suoi ostinati compagni di strada pregano affinché la «piattaforma» risorga dalle stesse sue ceneri. «Sotto quelle ceneri, dice Ben Bella, resiste il fuoco della volontà di pace dell'Algeria profonda». Igor Man bbiamo un Paese bifronte: quello «che conta», difeso con determinazione feroce, e quello «miserabile» contro il quale si accanisce lafuìia dei cosiddetti afghani gli estremisti islamici già allevati dalla Cia per combattere i russi in Afghanistan Scene di vita barricata a Algeri una donna velata passa accanto un'autoblindo della polizia A destra, due donne piangono al funerale di una vittima del terrorismo fondamentalista