La dittatura del Dow Jones
La dittatura del Dow Jones Il crollo della disoccupazione preoccupa i guru di Wall Street La dittatura del Dow Jones ONTA di più il Dow Jones o la dignità della persona? Mentre in Italia ci si angoscia per la disoccupazione ed in Germania ci si rallegra perché la percentuale dei senza lavoro è «scesa» all'I 1,7%, la Borsa di New York entra in fibrillazione alla notizia che la disoccupazione negli Stati Uniti «rischia» di ridursi sotto il 5%. Ora, un mercato finanziario ampio e funzionante (e Wall Street lo è), si sa, rappresenta il termometro della distribuzione del reddito tra lavoro e capitale. Una riduzione dei disoccupati significa pressione sui salari, pressione che condurrà, inevitabilmente, o ad una riduzione dei margini industriali delle aziende ovvero ad un aumento dei prezzi e ad un conseguente incremento dei tassi di interesse con relativa depressione dei corsi azionari. L'inflazione, è noto, è uno dei sistemi per ridistribuire il reddito in un sistema economico. Tutto vero, ma almeno a sentimento (forse si tratta di un sentimento un po' datato ...) c'è qualcosa che non va, che non suona bene: in fin dei conti non è l'uomo (in mancanza di meglio) il fine della Storia? Se ne sono accorte persino le organizzazioni finanziarie sovrannazionali che hanno iniziato a sanzionare processi produttivi che, pur essendo efficienti sul piano dei costi, sembrano parenti non troppo lontani dello schiavismo. Ma al di là di considerazioni di ordine morale, è necessario domandarsi perché un fenomeno civilmente apprezzabile (la riduzione della disoccupazione) viene vissuto come una iattura dall'istituzione principe di un Paese: il mercato. Qui entra in gioco il sistema di distribuzione del potere sul quale si reggono le grandi aziende americane. Potere che, oggi, è completamente nelle mani degli azionisti, i cosiddetti «stockholders». I quali delegano (sarebbe meglio dire, impongono) ai manager il compito di massimizzare il valore del loro investimento, e pertanto delle loro azioni. E se, per avventura, i salari rischiano di crescere (ed i margini industriali di ridursi, e con essi i corsi di Borsa), ecco gli imperativi della razionalizzazione (lo «streamlining»), della ristrutturazione, della riduzione del personale. Se l'operazione non riesce (cioè, se i profitti non crescono in termini relativi), i manager sono messi alla porta in quattro e quattr'otto. Per carità, nulla da dire. Tutto ciò crea una seria e serrata competizione ed è una delle ragioni della grandezza mondiale dell'America. Ma siamo così certi che il grido «tutto il potere agli azionisti» sia proprio un dogma? Una recente indagine (compiuta sempre negli Stati Uniti) ha rilevato che le società che hanno assicurato il massimo ritorno sul capitale nel lungo periodo e che hanno avuto meno bisogno di dolorose ristrutturazioni organizzative e finanziarie sembrano essere quelle dove maggiore è stata l'attenzione a favore degli «stakeholders», cioè i portatori di interessi legittimi nei confronti dell'azienda, ma diversi da quelli azionari: dipendenti, clienti, fornitori, banche ecc., per garantirsi la «fedeltà» dei quali (elemento preziosissimo nelle fasi di crisi) sono stati fatti grandi investimenti in tempo e risorse. Abbasso gli azionisti, dunque? Assolutamente no, specie in Italia dove chi investe in Borsa non gode certamente dell'«habeas corpus». Ma non vorremmo vi fossero dubbi in un confronto tra il lavoro («la lunga mano dell'uomo», diceva Locke) e l'indice telematico. Alessandro Pansa
Persone citate: Alessandro Pansa, Locke
Luoghi citati: America, Germania, Italia, New York, Stati Uniti
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