La lunga notte dei misteri albanesi di Pierangelo Sapegno

La lunga notte dei misteri albanesi LA CITTA' RIBELLE La lunga notte dei misteri albanesi Assediati in albergo per una sparatoria senza perché VALONA DAL NOSTRO INVIATO Ieri mattina, noi salivamo sulla macchina e l'ultimo soldato ci guardava sulla soglia dell'albergo con il mitra appoggiato sulla spalla. Aveva calzoni di tela strappati e logori, solo una maglia larga e le scarpe nuove. Le scarpe le avrà prese a qualcuno, abbiamo pensato. La iiiucchina metteva in moto e lui restava là, dietro di noi, senza fare niente. E' per questo che ci siamo detti ch'era finita, finalmente. Zani, il capo, non c'era. Stava ancora nella camera numero 3, a letto con il suo giubbotto antiproiettile. Non se lo leva neppure per dormire, e gliel'hanno insegnato ì serbi, a Mostar o da un'altra parte, dice. «Tu hai paura di morire?», chiedeva. Forse, bisognava dirgli di no. Basta pensare che la vita non sia solo questa, aveva risposto uno. Lui non capiva, ma rideva, «lo non ho paura di mori- re». I soldati straccioni che gli stavano attorno non ti guardavano mai negli occhi, ed era questa la cosa che faceva più paura. Le cose che non si vedono, che non si capiscono. Come quello che ci è successo l'altra notte, 4 sparatorie piene di rumori e botti, e le ore da prigionieri senza sapere perché. La notte di Valona forse non capiremo mai che cosa è stata. C'era qualcosa di grottesco e di pauroso insieme, nell'ammucchiata di cronisti dietro al bancone del ristorante, con i loro cellulari attaccati alle orecchie, le voci che si mischiavano ai colpi di kalashnikov, gli uomini di Zani che ogni tanto facevano capolino sparando all'impazzata e riuscendo pure a dire: «Tranquilli, vi proteggiamo noi». Beh, qualcuno dev'essersi messo a ridere. L'angoscia più grande era quella di essere a mani nude in un posto dove anche i bambini vanno a passeggio con il mitra, sentirsi inermi in mezzo a una sparatoria chissà quanto folle e chissà quanto irreale. Aart Heering, il collega olandese, adesso sta confessando la sua paura, ma ieri si buttava fuori dalla vetrata con il microfono per inseguire le mitragliate, mentre noi urlavamo ai cellulari quello che non riuscivamo a vedere, quello che non riuscivamo a capire. Era cominciato tutto alle 9 di sera, in quel ristorante con le vetrate sul mare. Ed era durato fino alle 8 del mattino, quand'eravamo saliti su quella macchina guardando l'ultimo soldato con la barba nera, fermo sulla soglia. In quelle ore, l'assurdità dell'Albania era sfilata in mezzo alla nostra pau¬ ra, sotto ai nostri occhi. Telefonava l'ambasciatore Foresti: «Tranquilli, è arrivata la polizia con i carri armati». Ma non è vero, noi non la vediamo, rispondevamo. «Me l'hanno detto». Il fatto è che per tre volte eram davvero arrivati i blindati della polizia per liberarci, ma avevano parlato con Zani e gli altri, sparato qualche colpo in aria e poi se n'erano andati. Da Roma, telefonava l'Unità di crisi: «Resistete». A chi, a che cosa? E con che cosa? Poi, c'era Zani che continuava a ripetere: «Sono i servi di Berisha che vogliono uccidere un giornalista italiano per creare il caso». A noi, è vero, un po' di tremarella c'era presa in mezzo a quelle sventagliate. Ma al mattino, a guardare le vetrate dell'hotel tutte intatte e solo qualche segno di proiettile sulle mura, c'era venuto pure qualche dubbio: l'impressione di una farsa albanese, di una sorta di minaccia sceneggiata, di una prigione un po' strana, co¬ me se noi fossimo degli spettatori terrorizzati e obbligati a guardare qualcosa che non capivamo, per raccontarla poi come piaceva a loro. Solo che è proprio questa l'Albania che stiamo conoscendo, una terra più lontana di quel che sembra, un posto assurdo, di violenza assurda. E alla fine questa era la vera paura. L'imprevisto, il senso di impotenza di fronte a una follia incontrollata. Così, se c'era un operatore un po' bevuto che diceva a Zani «tu devi smettere di fare il coglione con quel kalashnikov», a noi si gelava il sangue. Zani s'era voltato verso Carlo Bonini del «manifesto», con due occhi che promettevano niente di buono: «Cosa vuol dire coglione in italiano?». Bonini era stato costretto a mentire: «No, niente, è un modo scherzoso di parlare agli amici». Zani e i suoi ci parlavano di un ferito fra quelli che ci avevano attaccato, e lui ci guardava un po' stranito: «Perché non scrivete?». Ci ricordiamo, dicevamo. Lui girava da un gruppo all'altro, e quando trovava Aart, l'olandese, ripeteva sempre lo stesso gesto: «Ah, Ajax. Viva la Juve. Fregato Ajax. Io tifoso della Juve da bambino. Tardelli, Scirea, Paolorossi». Ecco che cosa sembrano Zani e i suoi: degli ultra. Ma tutto questo, ce ne rendiamo conto, non basta a spiegare e capire quella notte di Valona. I soldati che ci controllavano tutte le telefonate, che fino al mattino alle 7 ci seguivano uno per uno, quasi gentilmente, se non avessero avuto quel mitra in mano. L'impressione è che ci siamo infilati proprio in un bel pantano, tutti, le forze di pace, l'Italia, anche noi. Poi era arrivato il padrone dell'hotel. «Dormito bene, italiani?» Sì, a parte una sparatoria. Aveva sorriso di gusto: «Paura, eh?». Pierangelo Sapegno L'Hotel Bologna della città ribelle di Valona teatro del regolamento di conti tra bande rivali nel quale sono rimasti coinvolti i giornalisti italiani

Luoghi citati: Albania, Bologna, Italia, Roma