Secondo scandalo: armi a Teheran di Fiamma Nirenstein

Secondo scandalo: armi a Teheran Secondo scandalo: armi a Teheran Rispunta in manette il trafficante israeliano sparito TEL AVIV NOSTRO SERVIZIO Dov'era finito Nahum Manbar? Per quasi due settimane non se n'è saputo nulla. Salito sull'aereo, non ne era mai sceso, o così pareva. Ma ormai è chiaro: quando il 27 marzo si imbarcò a Roma su un volo Alitalia diretto a Tel Aviv, Manbar aveva ormai intrapreso, senza saperlo, il suo volo verso la resa dei conti di uno straordinario destino: trafficante d'armi israeliano con l'Iran. A Tel Aviv nessuno lo vide arrivare, e nessuno ne ebbe più notizie. Ma da ieri mattina la radio diffonde una notizia divenuta, evidentemente, incontenibile: Manbar si trova in terra d'Israele, in luogo sconosciuto. Alias: il Mossad lo ha preso in custodia in fondo alla scaletta e fermato per 10 giorni; e adesso è ben nascosto o per fargli sputare tutto il rospo, o perché il rospo non salti fuori troppo grosso, un altro Irangate che potrebbe trascinare con sé chissà chi. Naturalmente questa è solo una congettura. Ma tant'è: la macchina della verità è ormai in movimento e sarà difficile fermarla. Le immagini dell'uomo di affari Nahum Manbar che scorrono sui teleschermi in queste ore sono quelle del volto di un vincitore, una testa leonina: appare grande, grosso e bruno con un piccolo sorriso storto sulle labbra, con mia grande coppa d'argento in mano in mezzo ai giocatori della squadra di pallacanestro, lo sport nazionale israeliano, che con i suoi tanti, misteriosi milioni sponsorizzava da grande manager la squadra del Poel Tel Aviv. Manbar ha una storia da copione cinematografico, almeno fino a un certo punto. Nato e cresciuto nel kibbutz Givat Haim Me'uhad, aveva servito nel corpo «aristocratico» dei paracadutisti. Il kibbutz dopo il servizio militare non gli consentì di andarsene all'estero per un anno di studi pagato, come capita a volte per i ragazzi che il collettivo ritiene adatti. E così (e anche qui è storia classica dei giovani israeliani) Manbar decise di fare da sé, con le unghie e con i denti. Molte avventure fecero di lui un miliardario e un trafficante d'armi. Innanzitutto, il suo incontro con le rovine fumanti del mondo Est europeo post-comunista. Nel di¬ cembre del '95, nell'unica intervista esistente, concessa al giornale Haaretz, Manbar racconta come il ministro della Difesa polacco nel 1987 «era disperatamente alla ricerca di denaro contante per il suo Paese, e mi accolse a braccia aperte. I polacchi avevano un accordo con la Russia che proibiva loro di vendere armi non russe». Ma Manbar propose ai polacchi di lasciar da parte i rubli e «di cominciare a trattare con chi aveva i dollari. Essi furono entusiasticamente d'accordo. Nessuna legge proibiva di esportare armi. Fu così che io, un israeliano di Givat Haim, insieme con il governo polacco, rubammo i cavalli sotto il naso del Grande Orso». Come Manbar arrivò agli iraniani, non si sa: certo è che alla fine il ministro di Teheran che si occupava dell'industria bellica ebbe l'incarico di trattare direttamente con lui. Nel frattempo, l'uomo aveva sposato Franchie, la vedova di un grosso trafficante d'armi tedesco che probabilmente aveva già molto a che fare con l'Iran. Manbar aprì bellissime ca¬ se e uffici in riviera e a Ginevra. Nel 1991 il ministero della Difesa israeliano emise l'ordine di non aver più niente a che fare con Manbar, per il sospetto che vendesse armi all'Iran; ma ciò non toghe che egli rimase intimo amico, accolto in tutti i salotti, di gran parte della classe dirigente israeliana, uomini di sinistra compresi. Nel 1994 il Dipartimento di Stato americano accusò apertamente Manbar di violare l'embargo internazionale sul commercio con l'Iran. Nel febbraio del '95 il presidente Clinton in persona mandò una lettera al Congresso per informarlo espressamente che un uomo (cioè Manbar) e due società avevano fornito armi all'Iran. Così Manbar, l'israeliano del kibbutz e dei paracadutisti, entrò nella Usta nera degli indesiderati negli Usa. Si testimoniò anche che commerciava sotto il nome di false compagnie polacche e inglesi e che aveva implicato anche chiesi nella sua lucrosa carriera. Sempre nell'intervista a Haaretz Manbar dichiarò che gli iraniani con cui aveva la¬ vorato - un ministro, un viceministro e un consigliere del Presidente - non erano certo, per carità, fra quelli che volevano distruggere Israele... E che comunque lui non aveva venduto loro niente che potesse mettere a rischio la sicurezza del suo Paese. In realtà, ora che Manbar è prima scomparso e poi semiricomparso, in base anche alle sue dichiarazioni la chiacchiera si fa molto intensa: e se Manbar avesse messo le autorità israeliane (chi? e che cosa sapevano esattamente?) al corrente dei suoi loschi traffici, e se ora tutta la storia fosse venuta alla luce soltanto perché dopo la quasi rottura dei rapporti fra Iran e Germania è venuta a mancare la speranza di poter riavere in Israele il pilota scomparso Ron Arad, forse la vera moneta di scambio di tutta la vicenda? Chissà dunque che cosa sa Nahum Manbar, e se gli sentiremo raccontare la sporca storia di mi traffico di armi fra due acerrimi nemici. Fiamma Nirenstein