IL SANGUE DI CASA TUDOR di Giorgio Gualerzi
IL SANGUE DI CASA TUDOR IL SANGUE DI CASA TUDOR LA scena ultima è sua. Lo esigevano, nella rigida piramide delle gerarchie e delle convenzioni, la primadonna, lo attendeva il pubblico, lo pretendeva la dinamica del dramma. Ma il terzo incontro di Donizetti con Elisabetta regina d'Inghilterra, autentica ossessione della sua carriera, si chiude con una sorpresa. Il potere logora, rinsecca l'anima; la rinuncia è la sola difesa, la salvezza possibile: una considerazione più propria ad Elias Canetti che a Salvatore Cammarano, librettista prediletto dal compositore. «Io sono donna alfine. Il foco è spento del mio furore», dice la sovrana, senza grida, unendosi ad un lamento corale delle sue dame di corte. Troppo tardi ha deciso di usare clemenza. Mentre intona il suo lamento - «Vivi ingrato, a lei d'accanto», mentre la voce conosce le palpitazioni della rinuncia e annuncia il precipizio della prossima solitudine, echeggia il colpo di cannone: Roberto, che lei ha amato invano, è stato giustiziato. La macchina del potere e delle vendette è più forte della sua volontà, per quanto regale. Il canto diventa grido d'orrore. L'immagine di «Quel sangue versato» la tormenta, macchia indelebile. Lady Macbeth progetta il delitto, Elisabetta non sa impedirlo, scoprendo comunque «di che lagrime grondi, e di che sangue» il suo trono. L'ambizione feroce della prima non è più cruenta dei tentennamenti sentimentali della seconda. «Elisabetta al castello di Kenilworth», «Maria Stuarda», poi il «Devereux»: tre variazioni su un personaggio e un unico tema: il sentimento che si scontra con l'esercizio del potere. Altrettanti esiti diversi: la clemenza, la vendetta, l'abdicazione. La morte vince anche in «Anna Bolena» che, come accadrà a «Lucia di Lammermoor», non saprà sottrarsi al richiamo della follia. Donizetti, figlio del romantico genere «noir», trova alla corte dei Tudor cibo abbondante per soddisfare il palato del pubblico, quanto le proprie ansie espressive. In quei saloni, nutre il demone di un'ipocondria che diventerà muta demenza. L'opera italiana ride pochissimo, ormai. E il canto di queste regine non ha la vertigine e lo smalto brillanti di Rossini, né la dolente nudità di una melodia di Bellini: grida il silenzio della propria impotenza. Lo ascolterà Verdi. Sandro Cappelletto IN SGENA IL' 15 APRILE DOPO 120 ANNI Per cogliere appieno l'importanza della rappresentazione al Teatro Regio del «Roberto Devereux», che ritorna nella nostra città dopo ben 120 anni di assenza, bisogna, al di là della celebrazione del bicentenario donizettiano, individuare due motivi. Il primo, di natura squisitamente locale, si riferisce alle presenze torinesi di quest'opera, che non ha mai raggiunto le scene del Regio. Rappresentato per la prima volta al Carignano nel settembre 1840, il «Roberto Devereux» comparirà a Torino altre sei volte: due al Carignano (ottobre '45 e ottobre '52), e una volta ciascuno al Gerbino (marzo '52), al Vittorio Emanuele (agosto '62), all'Alfieri (luglio 1870, con una giovanissima Romilda Pantaleoni quale Elisabetta Tudor), e infine, l'ultima volta, nell'aprile 1878 (direttore Alessandro Pome), al Teatro Rossini (l'ex Sutera d'inizio '800, situato sotto i portici di via Po). C'è poi un secondo motivo, an¬ cora più importante, poiché tocca nel suo insieme quel movimento di rinascita, di impronta principalmente inglese, che da quarant'anni, attraverso un'intensa, graduale operazione di recupero scenico, ha restituito finalmente a Donizetti il rango artistico che gli compete nella gerarchia mondiale dei valori operistici. Torino - rimasta finora abbastanza estranea al versante serio della cosiddetta Donizettireinaissance (si ricordano infatti soltanto una mediocre «Stuarda» e una non più che decorosa «Anna Bolena») - con questo «Devereux» compie un salto di qualità, inserendosi fra le poche città itaMane (Napoli, Roma, Bologna, Genova) che in anni recenti hanno ripreso con il successo che certamente merita il terzo titolo della «trilogia Tudor». Giorgio Gualerzi Nelle foto a fianco, il Maestro Bruno Campanella e Alexandrina Pendatchanska.
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