vittoria ronchey sfida il pulp di Mirella Serri

IL CONSIGLIO IL CONSIGLIO di Chiara Simonetti CHI non ha pianto, almeno una volta, sulla scena finale di «Colazione daTiffany» quando Audrey Hepburn, George Peppard e il gatto senza nome si abbracciano finalmente sotto la pioggia? Rileggendo l'omonimo racconto di Truman Capote (Garzanti, 128 pp., 18.000 lire), si scopre che l'originale ruota, come nella tabaccheria di «Smoke» di Paul Auster, attorno al bar di un uomo timido e innamorato, Joe Bell. Nel film di Blake Edwards non compare, ma nel racconto filtra sapientemente le violente emozioni che Holly Golightly suscita intorno a sé. Altrettanto irresistibile ma più sfrontata e libertina della Hepburn, è ugualmente attorniata dalla sua corte dei miracoli tra cui però spicca, possente e grottesca, Mag Wildwood, modella balbuziente omosessuale. Il finale, più amaro e coerente, lascia in più qualcosa di impagabile: un acuto senso di nostalgia per quelle storie d'amore fatte solo di desiderio. PARIGI TESTAMENTO FRANCESE Andrei Makine Mondadori pp. 268 L. 30.000 EDITORE Gallimard gli aveva detto: «Saremo fortunati se ne venderemo duemila copie. Il soggetto storico, intimista, troppo letterario non troverà un vasto pubblico». Invece II testamento francese, dello scrittore di origine russa Andrei Makine, sta per sfiorare in Francia il milione di copie vendute. Il romanzo è stato tradotto in una ventina di lingue e ha vinto i premi Goncourt e Médicis nel '95. Largamente autobiografico, il libro narra, attraverso i ricordi della nonna dell'autore, di una Francia lontana, mitica e poetica sullo sfondo di una Russia sconfinata e innevata, che vive sotto il giogo totalitarista. Perfettamente padrone di una lingua francese pura e letteraria, Andrei Mikine attraversa gli anni, i luoghi, i ricordi, le generazioni esplorando • iestituendo la forza di uomini e domie che, semplicemente, affrontano la vita. La loro cornice: una Francia, sognata Atlantide, e una Russia, nera e mostruosa. Lei vive da dieci anni in Francia, Paese di cui ha preso la cittadinanza. Come ha trovato la Francia della realtà, rispetto a quella di cui sua nonna le parlava e grazie alla quale ha imparato la lingua? «A quel tempo vivevo nella Francia dei libri, poetica e sognata. E oggi quella di tutti i giorni la vedo e la conosco molto poco. Ci sono molte cose della realtà quotidiana che mi sfuggono o non mi interessano». Pensa di ritornare in Russia? «Ci tornerò, forse, tra una decina d'anni. Per me la Russia, ormai, è un Paese ideale. Quello che mi interessa è conservarne un'immagine poetica. Tornare oggi vorrebbe dire non riconoscerla più, proprio come quando i miei amici me ne parlano. Non capisco più niente. Ho lasciato una Russia brezneviana, diciamo pure staliniana, e adesso è un Paese capitalista dove tutti hanno la carta dì credito». Non proprio tutti. «No, ma tutti sanno cos'è». Nel romanzo lo stalinismo è bilanciato da caratteri forti e combattivi, contraltare all'orrore di un'epoca. «La terribile esperienza di quell'epoca ha forgiato dei caratteri umani eroici e generosi. La loro forza era il solo modo di esistere e di resistere al regime. Altrimenti la loro vita e quella dei loro figli sarebbe stata invivibile». E' questa la «ricerca dell'essenziale» ricorrente nel libro? «Credo sia importante riportare quell'orribile momento alle sue proporzioni umane, e non guardare il piano teorico, il progetto socialista. Sono le vite degli uomini che mi interessano, non il dibattito ideologico». Lei afferma: «La scrittura può restituire l'essenziale, cosa che la parola non riesce a comunicare». Perche? «Lo scopo dello scrittore, secondo me, è di strappare l'uomo da tutte le riduzioni che la società gli impone. Oggi le relazioni umane sono basate sull'incarico professionale: che lavoro fa - mi interessa - lo frequento. L'anima, il cuore umano non interessano più nessuno. L'unico spazio riservato a questo è la letteratura. Solo la letteratura può attirare verso quello che c'è di singolare e di profondo nell'uomo. E tutte le esperienze totalitarie di questo secolo si fondano sulla distruzione di questa singolarità. E anche oggi, in civiltà che si vogliono libere e democratiche si tende a creare dei robot. Guardi tutti questi giovani che scendono in piazza, già preoccupati che gli venga assicurata la pensione. Gli si insegna a costruire la propria vita innanzi tutto in funzione del denaro. Ma la vita è così breve e a me non interessa ridurla a questo pane quotidiano, che pur va guadagnato». I quattro romanzi che ha pubblicato fino a oggi, vivono a cavallo di questi due mondi: la Russia e la Francia. Sarà una costante anche del prossimo romanzo? «Sì, perché è una doppia natura che mi appartiene». Può anticipare qualcosa? «Meglio di no, e poi il libro non esiste finché i lettori non lo leggono. Prima è solo un manoscritto, allora potrei parlare di altri manoscritti che ho nel cassetto». Di cosa si tratta: di note o di manoscritti rifiutati? «Entrambe le cose e anche di manoscritti che per il momento non mi interessa pubblicare. Sono dell'avviso che non tutto vada pubblicato quando l'autore è in vita. Anche sulla scrittura, il tempo agisce come con il vino. Trovo che alcuni scrittori di oggi siano stakanovisti: scrivono di corsa e pubblicano tutto. E poi si tende a immortalarli quando sono ancora in vita. Secondo me, invece, lo scrittore comincia a vivere dopo la sua morte. E poi da vivo c'è la fastidiosa tendenza a attualizzare tutto quello che dice e scrive. Si cerca di tirare l'autore verso l'attualità e l'effimero. E invece qual è il suo tempo? L'eternità». La sua scrittura ha una funzione catartica rispetto alla Russia che ha vissuto? «Per me l'unica catarsi è quella ri- Esule in Francia, evoca la pallia perduta: il romanzo (un milione dì copie) ha vinto Concourt e Médicis spetto alla paura della morte, non alle passioni primarie dell'uomo. L'atto dello scrivere, e più ampiamente la letteratura devono dare una sensazione vissuta di eternità. Il libro lo permette e non è semplice artificio. Ne II testamento francese, ad esempio, ho scritto dell'esperienza di più generazioni in una grande concentrazione temporale dalla Russia zarista a quella contemporanea - e di spazio - Russia e Parigi - per un libro che si legge in poche ore. Il libro permette di essere onnipresenti, come Dio. Allora lo scrittore è Dio, perché lo scrittore crea. E fa viaggiare il lettore nello spazio e nel tempo. Per me lo scrittore e il lettore sono la stessa cosa. Nel momento in cui si scrive, un dialogo si instaura tra l'io che agisce e l'io che guarda l'agente. Insomma è la differenza che così bene esprime la lingua francese tra je e moi e su cui si è espresso Sartre». Gabriella Gatto vittoria ronchey sfida il pulp UN' ABITUDINE PERICOLOSA Vittoria Ronchey Mondadori pp. 192 L. 30.000 ROMA ABITUDINE PERICOLOSA Vittoria Ronchey Mondadori pp. 192 L. 30.000 OSTRA Signora la paura: la psicologia della piccola Diana, le sue reazioni di fronte al mondo sono molto diverse da quelle della maggior parte delle persone. Teme, invece del buio, la luce. Si sgomenta da vanti allo splendore di una spiaggia bianca, all'azzurro di una distesa marina. La sua vita è dominata da incontrollabili timori, preferisce rifugiarsi tra quattro pareti, prigioniera dei suoi pensieri. L'unico con cui l'evanescente e ossessionata Diana, instaura mi tenero dialogo è uno zio non vedente che la ripaga di una perfida moneta: abusa della sua fiducia e la stupra. Ma questo non è che l'inizio di un'esistenza tormentata: segue un matrimonio di convenienza senza slanci, né passioni, un intreccio di rapporti familiari segnati dall'odio e dalla rivalità. L'esile ragazza, protagonista dell'ultimo romanzo di Vittoria Ronchey, Un'abitudine pericolosa, sembra rassegnata a tutto. Anche ai numerosi decessi che accompagnano la sua crescita: prima lo zio, poi il marito e poi altri ancora. Disseminando indizi, la Ronchey ci guida sapientemente in un'atmosfera di suspense. Il punto d'arrivo è la scoperta che l'artefice di tanto spargimento di sangue è proprio Diana, serial killer in gonnella, che sembra vivere peren¬ nemente in trance. Se nei precedenti romanzi la Ronchey aveva raccontato la fine delle dittature del nostro secolo - del fascismo in 1944, del comunismo ne La fontana di Bachcisaray - ora da una scrittura finemente introspettiva e analitica fa nascere un intreccio pulp, segnato dal terrore e dal sangue. Un romanzo crudele che non lesina le tinte forti e in cui i sentimenti sono ridotti a zero: la professoressa Ronchey, che nel '75 esordì con Figlioli miei marxisti immaginari mettendo a rumore il mondo della scuola, adesso si avvicina agli scrittori delle ultime generazioni con un libro un po' «cannibale». Che ne pensa, signora Ronchey, la «sua» Diana è un personaggio da pulp fiction? «Perché no? Ho voluto dimostrare che, per essere cannibali, è meglio avere i capelli grigi. Ho voluto narrare la storia di una persona apparentemente normale, animata da un forte desiderio di uccidere. La ripetitività del gesto di Diana ha origine da una fobia sessuale. Ma la ferocia dei comportamenti, a mio parere, si può capire solo alla fine della vita: questi nostri scrittori pulp non sono in realtà così cattivi come vogliono apparire». Che cosa rimprovera specifi camente a questi narratori? «Ho letto Ammanniti, Santacroce, mi fanno tenerezza. La loro durez za si risolve nel turpiloquio. Questi nostri autori maledetti ostentano una cattiveria artefatta, di maniera: in realtà sono ragazzi di buona famiglia con carriere scolastiche di tutto rispetto e una tranquilla esistenza casalinga. Altro che maledetti!». Gli attuali figli di papà, i ribelli attuali, le sembrano uguali a quelli degli Anni Settanta? «Sono diversi. Allora esisteva il vampirismo ideologico, il tentativo d'indottrinamento a cui gli insegnanti impreparati sottoponevano gli studenti e coprivano le proprie lacune culturali». Mirella Serri