Ritorna il politichese della prima Repubblica

Ritorna ilpolitichese della prima Repubblica F— IL PALAZZO Ritorna ilpolitichese della prima Repubblica sichetta deliziosa: «Astensioni incrociate», «maggioranze variabili», «opposizione aperta», quest'ultima di pregevole e recentissimo conio berlusconiano. E quindi si ascolti la risonanza, e soprattutto si cerchi di cogliere il criterio logico che ispira un'espressione come «governo di minoranza», dietro a cui sembra che riecheggino «convergenze parallele», «compromessi storici», «disaccordi concordati» ed altre oscure bizzarrie in antico politichese. La novità è che ce n'è uno nuovo, adesso, di politichese. O meglio: ce n'è uno, sempre bruttino, e pure di seconda mano. Non per nulla l'ha tenuto a battesimo Ciriaco De Mita, questo bislacco «governo di minoranza»: il punto è che immediatamente ha fatto scuola. Le «astensioni reciproche», o anche «incrociate» sono invece del senatore D'Onofrio. «Voti incrociati» è parso naturale suggerire al sottosegretario Micheli. «Veti incrociati», d'altronde, l'hanno usato un po' tutti, in un deliquio d'aggrovigliamento linguistico che rifletteva come in uno specchio la più inconcludente confusione di una classe politica che non solo non sa più che fare, ma forse nemmeno sa tanto bene come dirlo. E così riscopre e riadatta alla meglio la lingua elusiva e fumosa del passato, ne rilancia le più inveterate astrattezze e ambiguità, insomma ricomincia a parlare come parlavano i politici nella Prima Repubblica. Senza più nessuna vergogna, anzi con un che di liberatorio, e quindi con tanto di riesumato «quadro politico», ripristinate «larghe intese», riesumati «tavoli separati», resuscitati «obiettivi programmatici». E il consenso? «Ampio» dev'essere, ed è, infatti. La maggioranza? «Coesa». Il segnale? «Tangibile». L'atto politico? «Rilevante». Il chiarimento? «Di fondo» o «di sostanza», che suona egualmente a vuoto. Queste e altre perle ha riofferto dunque la piccola crisi albanese, conclusasi con quell'ipocrita «rilancio dei contenuti» che per una volta ha fatto quasi rimpiangere il realismo colloquiale di Sgarbi e forse pure certe esuberanze di Bossi. E invece niente: sulle volgarità espressive del bipolarismo è tornata di colpo a vincere l'astruseria delle «mozioni comuni concordate», il mistero iniziativo-procedurale della «sfiducia tecnica». Alla fine, nessuno capiva, tranne loro. Perciò Cossutta ha richiesto una «coincidenza programmatica complessiva», ripiegando su una «linea di convergenza». «Patto a termine» è di Mussi; «accordo a medio termine» di Publio Fiori. Con cautela La Malfa annunciava un voto «non favorevole», mentre Mastella tradiva la più proporzionalistica delle retoriche: «Noi possiamo concorrere per definire». Sulla «verifica», poi - «la grande questione della verifica», addirittura, secondo Marini - si sono scatenati in diversi. Chi l'ha voluta «ampia» e chi «seria», chi «chiara», chi «profonda» e chi «lunga». Come risvegliatosi da un lungo sonno, Casini ha invocato un «governo di decantazione». Con la stessa freschezza Berlusconi ha ridato dignità a quel «governicchio» che risale ai tempi di Goria. In compenso, il verbo di moda è stato «certificare», donde anche l'atroce e purtroppo abusatissima «certificazione». Nessuno però ha certificato che questo grigio politichese di ritorno segnala il fallimento del nuovismo e mette una pietra sulla democrazia maggioritaria. Fino a far nascere il sospetto che i politici parlano come prima, con l'aggravante di non essere più quelli di prima. Filippo Ceccarelli Bili |