Mine per i pellegrini di Giuseppe Zaccaria

Mine per i pellegrini Mine per i pellegrini Sventato un altro attentato LA STRATEGIA DEL TERRORE SARAJEVO DAL NOSTRO INVIATO Dopo il papa, i pellegrini. Altre mine, oggi, avrebbero dovuto funestare il loro ritorno verso Kiseljak, «enclave» croata in territorio di Bosnia. Gli uomini della Nato hanno scoperto e disinnescato ieri mattina sei mine piazzate lungo la strada nei pressi di Ilidza, sobborgo di Sarajevo. Questa volta si trattava di ordigni «vecchi», cioè recuperati dai luoghi in cui erano stati piazzati durante la guerra. Erano però collegati l'un l'altro da inneschi nuovissimi, e da un filo che avrebbe dovuto farli esplodere contemporaneamente al passaggio del primo pullman di ritorno dallo stadio. Il piano terroristico, dunque, esisteva davvero. A poche ore dalla scoperta della santabarbara che avrebbe dovuto macchiare di sangue la visita del Papa, mentre ancora si cercano quattro integralisti turchi, la questione dei terroristi di cui ancora la regione ò popolata si riapre con toni drammatici. Se quelle mine e quel plastico fossero esplosi, Giovanni Paolo secondo non sarebbe stato in pericolo. A meno di duecento metri da lui, però, un ponte sarebbe andato in briciole, chiunque si fosse trovato nel raggio di ottanta-cento metri sarebbe stato investito dall'onda d'urto e da frammenti scagliati come proiettili. Una strage che avrebbe stravolto tono e significati di mia visita di pace, segnato profondamente la coscienza del Papa. Il governo bosniaco per ora evita di attribuire responsabilità, fonti della polizia continuano a dire che in un territorio come questo gli attacchi possono giungere da un «cetnick» serbo, un «ustascia» croato come da un fanatico dell'Islam. Si ammette però che da una settimana si cercano in Bosnia i quattro turchi del gruppo «Ritorno del profeta». In qualche modo si riapre la questione dei «mujaheddin», macchia che continua a segnare l'immagine di una Bosnia islamizzata nella politica, ma nella società ancora tollerante, moderna, ospitale. Durante la guerra i volontari dell'Islam non sono mai stati più di tremila, inquadrati nella «Muslimanska Brigada» del settimo Korpus. Afgani, giordani, iraniani, pakistani, turchi arrivati solo per sacrificarsi, in genere con ottime probabilità di successo. A guidarli c'era un uomo leggendario: il colonnello Sejko Kubura, bosniaco di Sanski Most, sfuggito ai serbi dopo il massacro della famiglia e le violenze subite da una figlia adolescente. Per tre anni e mezzo, sotto il suo comando l'unità musulmana (nota anche come «brigata di Travnik») avrebbe compiuto il lavoro più sporco, svolto le azioni più disperate. Una sola volta i bosniaci ammisero formalmente l'esistenza di «mujaheddin» nel loro esercito. Fu quando, nel giugno del '95, Sarajevo stava per capitolare. In quei giorni la piccola tv di Stato trasmise immagini di guerriglieri islamici che marciavano sui monti, visi anneriti e fasce verdi a circondare la fronte. «Vengono a salvare la città», era il messaggio. Si videro «mujaheddin» che si apprestavano al sacrificio facendosi passare intorno al corpo il rosario musulmano. Sarajevo non cadde. Poche settimane dopo un altro ufficiale bosniaco, Nezim Effendia Halilovic (più noto col soprannome di «Muderis»), raccontò ad un settimanale l'eroismo dei suoi soldati. Halilovic è uomo profondamente religioso, laureato in teologia all'università «Al Azhar» dei Cairo. «Senza il loro sacrificio sentenziò - la Bosnia non sarebbe sopravvissuta. Può giungere però il momento in cui anche la più profonda gratitudine viene sovrastata dalla ragion di Stato. Per il governo di Izetbegovic, accadde con gli accordi di Dayton: a partire da quel momento i programmi d'aiuto restavano sottesi alla questione dei fondamentalisti, soprattutto da parte americana. Il governo di Sarajevo, a trattative appena concluse, comunicò che tutti i «mujaheddin» avevano lasciato il suo territorio, tranne quelli che nel frattempo avevano acquistato la cittadinanza. Quanti? In mancanza di cifre ufficiali si calcola che i fondamentalisti arabi con passaporto bosniaco siano oggi fra i quattro ed i cinquecento. In gran parte hanno sposato vedove di guerra, hanno ottenuto una ca¬ sa, conducono una vita appartata. Il governo tende a collocarli lontano dalle grandi città: dicono ci sia un villaggio nei pressi di Maglaj dove questa gente si è raggruppata, creando un'isola senta nel centro dei Balcani. Ma se questo appartiene alla storia (e forse al cambiamento dei costumi) altri fatti, più di recente, hanno riproposto il problema della penetrazione islamica. Si parla sempre, attenzione, di Islam politico. La gente di Sarajevo, sia pure invasa dai musulmani scesi dalle colline, ha sempre guardato al fondamentalismo con ironia, mantenendo ferme le distanze. Giuseppe Zaccaria La polizia dà la caccia a un misterioso commando di integralisti islamici turchi

Persone citate: Brigada, Giovanni Paolo, Halilovic, Izetbegovic, Most, Sejko Kubura

Luoghi citati: Bosnia, Cairo, Dayton, Sarajevo