Il Cile di Paperone e Pinochet

Il Cile di Paperone e Pinochet Da 13 anni tassi di crescita record e disoccupazione bassa, ma la dittatura pesa ancora Il Cile di Paperone e Pinochet Ambiguità e segreti di un boom economico IL NUOVO SUD AMERICA SANTIAGO DAL NOSTRO INVIATO Dalla terrazza dell'Hotel Carrara, nel cuore antico di Santiago, la città si vede come una cartolina. L'architetto Patricio Hales che guarda la cartolina allarga lentamente il braccio, quasi facesse una panoramica, e segna nell'orizzonte i grattacieli di vetro e di marmo che vanno travolgendo il profilo di Santiago. Sul fondo delle Ande blu la luce del tramonto brucia i cristalli lontani e la capitale di questo Cile neolibcrale si mostra come un cantiere senza fine, dorato dall'ultimo sole, opulento quanto un soglio di Paperone. Patricio è un vecchio amico degli anni di Allende, ha fatto la galera di chi si opponeva a Pinochet, poi l'esilio; oggi, nel nuovo tempo della democrazia, guida una commissione che controlla l'urbanistica. Ci siamo salutati con un lungo abbraccio, dentro il quale c'era la memoria degli anni di ferro e il dolore ruvido dei tanti amici morti di dittatura. «Questi cantieri raccontano le nuove montagne di dollari che riempiono le banche», dice Patricio a voce bassa. Eppure, ancora oggi arrivare in Cile dal Brasile è come precipitare nella storia altra dell'America Latina. La gente di Santiago attraversa il sole delle strade in giacca scura e cravatta perfino ora che qui è agosto. Sono le comparse di un film sul dovere del lavoro. E nemmeno a Isla Negra il Pacifico riesce a sorridere degli scherzi che Neruda gli montava nella casa sul mare; il vento freddo sa già di Antartide. Questo Cile porta ancora gli occhiali neri che coprivano la faccia di Pinochet. Ma oggi Pinochet va in giro senza occhiali, e questo Cile serio e cupo lo clùamano ora «la tigre dell'America Latina». Una tigre come quelle - Taiwan, Singapore, la Corea, la Malesia, le altre loro sorelle - che hanno fatto la nuova potenza economica dell'Asia. Per 13 anni, senza interruzione, il Cile ha tenuto tassi di crescita record, aumentando la ricchezza nazionale a una media del 7 per cento l'anno. Risultati che nemmeno il Giappone spera; soltanto la Cina. Oggi in America Latina nessuno gli sta alla pari, e i soldi guadagnati in questo lungo tempo di prosperità stanno comprando pezzi interi di continente, le centrali elettriche dell'Argentina, le ferrovie della Bolivia, le banche del Venezuela. Negli ultimi 5 anni, i finanzieri di Santiago hanno speso quasi 10 miliardi di dollari in giro per 11 Sud America; e oggi in questa striscia di terra stretta tra l'Oceano e le Ande abita la più alta quota di capitani d'impresa che controllino le ricchezze di altri Paesi d'Anerica Latina. Il piccolo Cile. Gli economisti che arrivano fin quaggiii a studiare il miracolo di un mercato in ciclo costante di espansione non si pongono tante domande: loro vanno nei centri d'analisi, confrontano le cifre, parlano con i tecnici, e poi se ne tornano a casa a elaborare quello che hanno visto. Ma il giornalista che viene da lontano e che ritrova gli amici di un'altra epoca e che dalla terrazza del Carrera osserva laggiù, in basso, il palazzo della Moneda che gli sta di fronte - il palazzo presidenziale, che Pinochet bombardo e dove Allende ebbe la morte - vede la diffidenza ancora con la quale la gente che sta nel sole si tiene lontana dai «carabineros» di guardia nella piazza. Vede come i passi degli uni e degli altri non s'incrocino mai. Come una distanza innaturale tenga sempre separati i percorsi dei militari dai passanti che curiosano timorosi, in silenzio. E allora lui, il giornalista, le domande se le pone. Almeno due domande. La prima: ma dunque, il potere militare conserva tuttora un peso forte nella vita di questa società? Seconda domanda: quanto del vecchio potere militare è trasmigrato dentro il corpo della nuova democrazia? In realtà, a dirla fuori dai denti, l'una e l'altra domanda sono soltanto la misera mascheratura di un dubbio che sta acquattato nel fondo della coscienza del visitatore, il dubbio che in questo Cile opulento la legittimazione economica della dittatura rischi di portarsi dietro, alla fine, anche il fantasma di una sua legittimazione politica. A Santiago, Pinochet prese il potere l'il settembre del '73. Pochi di coloro che non sono adolescenti lo hanno dimenticato. Pei' anni il Cile fu l'isola di Robinson, la patria perduta di chi aveva creduto possibile l'alleanza tra socialismo e democrazia; e il confronto - e lo scontro - che ne seguirono furono battaglie ideologiche senza frontiere geografiche, territori della politica dove Berlinguer e Nixon, Kissinger e la Thatcher, e il compromesso storico, e la Cia, e la sovranità limitata, e le Brigate rosse, e la rivoluzione di Fidei, diventarono un Ulrico calderone di sogni, di speranze, di utopie spesso inutilmente generose (ma spesso anche suicide e assassine). La dittatura resse 17 anni, e fini soltanto per un erro¬ re di presunzione di Pinochet: quando un referendum gli disse che il suo tempo stava scadendo, c'era ancora un 43 per cento di cileni - quasi la metà di questo popolo, dunque - che votò invece perché la dittatura continuasse. E perché «i comunisti» se ne stessero in galera. Oggi che la democrazia ò stata restaurata (ma è un restauro arrangiato, e Pinochet sul suo pie- distallo è una statua viva), i «comunisti» al potere sono invece la vecchia de, di Frei, di Aylwin, Zaldìvar, Valdés, retta e assistita dal riformismo di Ricardo Lagos; e quanto ai comunisti, quelli veri, quelli del pc, che più di tutti guidarono la resistenza contro la dittatura, oggi non hanno nemmeno un deputato. E se ne stanno in un angolo, vittime anzitutto delle proprie eredità politiche ma anche dei costi che la transizione pacifica impone (qui come nella Spagna postfranchista) ai nemici simbolici del passato. Quanto amaro sia poi questo costo - amaro in termini anche di rinuncia alla dignità della memoria - l'ho misurato qualche giorno fa in libreria, quando, appena arrivato a Santiago, sono andato a sfogliare i volumi più recenti. Ce n'era uno dal titolo suggestivo, scritto da un sociologo che fu comunista durante gli anni di Pmochet e che in quel tempo aveva trovato rifugio e asilo in Italia come giovane leader del pc cileno; nel risvolto di copertina del libro, ora si cita ampiamente il nuovo impegno del sociologo con Lagos ma non una parola viene raccontata del suo passato di militanza comunista. Condannare il conformismo in tempi di dittatura è presuntuoso, forse anche mgiusto; ma il conformismo in tempi ragionevoli di democrazia è una colpa grave. Non ho comprato il libro e ho sofferto per quest'abrasione che il mio vecchio amico di anni difficili si era «dovuto» procurare sulla propria biografia. Non gli ho nemmeno telefonato, non volevo disturbarlo. Il manovratore non va disturbato. E il manovratore che nel '90 cedette alla nuova democrazia la guida del potere stava pilotando un sistema economico che finalmente dava ragione ai «Chicago boys», dimostrando come l'apertura del mercato, la liberalizzazione totale del lavoro, e la privatizzazione del patrimonio statale, disegnassero una nuova geografia di straordinarie opportunità finanziarie. Che poi questo allettante territorio dovesse pagare un costo sociale molto amaro, era problema che una dittatura, naturalmente, nemmeno considera. Toccava al nuovo manovratore, semmai, cominciare a pensarci. «E noi ne eravamo pienamente consapevoli», dice ora Alejandro Foxley, che fu il primo ministro dell'Economia in un governo post-dittatura. «Ma un popolo arriva alla maturità quando mostra la capacità di far tesoro delle proprie esperienze senza, però, negare una determinata esperienza per il solo fatto di averla vissuta in opposizione a un regime autoritario». Foxley è un professore che oggi ha messo da parte i suoi studi, per fare il presidente della de a tempo pieno. E' un presidente di transizione, in un percorso globale di transizione della politica cilena: quest'anno ci sono le elezioni, l'anno prossimo «Pinocho» sarà definitivamente in pensione. Molte cose potrebbero cambiare. «Ma una cosa credo che tutti coloro che sono in buona fede accettino senza discutere: che la nostra politica economica non fu, e non è, la politica economica di Pinochet». In America Latina, la Spagna è certamente la patria antica, perduta dentro la storia; ma da qui si guarda a Madrid anche come la nuova nazione che ha saputo liberarsi della dittatura senza tragedie di sangue. La lezione della transizione spagnola fu che la cultura politica del tempo nuovo modifica solo in parte l'eredità del passato, mentre le egemonie sociali fissate dal sistema caduto vengono rigenerate nei processi della modernizzazione. «Nel '90, guardammo anche noi con attenzione a quell'esperienza», dice Foxley. «Capivamo che le scelte politiche erano importanti, ma che più importante era che queste scelte le inserissimo in un processo di discussione e di dialogo con la società». Furono, questi, i patti della «concertaciòn», che consentirono il mantenimento dei principi economici della dittatura ma li affiancarono con un impegno nuovo di bilancio in spese sociali. Nulla però fu cambiato dell'indirizzo che aveva dato stabilità e sviluppo; e i diritti individuali del lavoro (contratto collettivo, sindacalismo, garanzia del posto) restarono fortemente penalizzati come durante gli anni duri del regime. Il taglione del neoìiberismo non ammette tradimenti. Allo stesso modo del pc, oggi anche il sindacato della Cut non ha alcun peso politico, e conserva soltanto un marginale ruolo sociale: dopo un piccolo boom nei primi anni di ritomo alla democrazia, ora resta iscritto al sindacato il 12 per cento dei lavoratori. Ma il Cile è anche il Paese d'America Latina che ha il più basso indice di disoccupazione, appena il 6 per cento. Lavorano tutti, sono proprio quei vestiti scuri che traversano in silenzio il sole forte di piazza della Moneda. Seri, cupi, come chi deve fare anche due lavori al giorno per poter tirare bene. Il «ciclo virtuoso» avviato dai boys di Pinochet ha potuto allargare verso la periferia della società una parte del flusso della nuova ricchezza, e i poveri - che all'inizio degli Anni Ottanta erano il 46 per cento della popolazione - oggi sono il 28 per cento. Ma la speranza che ima crescita sostenuta della produzione possa risolvere anche questo drammatico squilibrio economico viene ormai vista come una pericolosa illusione. Rafael Agacino, un economista di grande barba nera e di capelli arruffati, se ne dice certo: «L'analisi di questi anni di successo dimostra due cose. La prima è che la riduzione della povertà ha però allargato la forbice tra i più ricchi e i più poveri. E la seconda ci anticipa che in questo sistema la capacità di ridurre la povertà si va progressivamente estinguendo. L'assorbimento ormai è minimo, i tempi delle vacche grasse finiscono». Foxley e Agacino non rispondono al dubbio sulla natura reale di questo Cile opulento, o forse lo fanno senza dirlo. Ma una risposta si può trovarla comunque nella storia stessa dell'America Latina di oggi, che dopo la «década perdida» torna a farsi patria di forti flussi di capitali stranieri. La grande finanza non si pone molte domande, investe dove vede prospettive buone. Santiago, con i suoi abiti scuri sotto il sole, oggi è una prospettiva buona. Il resto, ormai non pare contare molto. Mimmo Candito Il prossimo anno il generale andrà definitivamente in pensione e forse qualcosa cambierà I diritti individuali di lavoro sono rimasti limitati e i sindacati sono emarginati e con pochi iscritti I finanzieri cileni negli ultimi 5 anni hanno investito 10 miliardi di dollari nel continente I poveri sono scesi dall'80 a oggi dal quarantasei al ventotto per cento della popolazione Due immagini di Santiago con i grattacieli del nuovo boom che sta cambiando faccia alla capitale e sotto il generale Augusto Pinochet padre del miracolo economico