Il no della Piazza Padrona di Massimo Giannini

Il no della Piana Padrona Il no della Piana Padrona Sparisce il sogno del «governo amico» LI ha illusi con un programma elettorale mirato sullo sviluppo e sulle aziende, per poi ripagarli in dieci mesi con aumenti dei contributi sociali, prelievi sugli interessi dei titoli su prestiti, tasse «indiscriminate» sulle società di comodo, anticipi di imposte sul gas e l'energia e infine l'ultima «goccia», la batosta sul Tfr. Ci ha provato più d'una volta, il presidente Giorgio Fossa, a rimettere in riga la sua Piazza Padrona: a convogliare gli umori dell'Auditorium dell'Eur su un binario che non portasse la Confindustria allo scontro frontale e definitivo col governo di Centro-Sinistra e con il suo premier Romano Prodi, che non chiudesse ogni spiraglio al dialogo: «Non siamo un partito, non vogliamo sostituirci ai politici, questa giornata marca il nostro dissenso su una linea di politica economica che riteniamo sbagliata per il Paese...». Ma bastava sentirli uno ad uno, gli industriali di tutta Italia, i grandi e i piccoli, che si avvicendavano sul palco. Bastava sentire non tanto e non solo la pur inappellabile ma generica condanna pronunciata dallo stesso Tronchetti contro l'imperante «cultura catto-comunista...», ma quella più diretta e sprezzante dei «piccoli». Bastava sentire Franco Farabegoli, emiliano come il premier, riversargli contro quel suo aspro «Prodi riconosca che sta governando con un programma diverso da quello con il quale ha vinto le elezioni!». Bastava sentire la bile padana con la quale il lombardo Luigi Attanasio ripeteva quel «Prodi e il suo governo tradiscono le aspettative degli elettori, questi signori si ricordino che la forza di questo Paese sono le imprese, siamo noi, che se vogliamo ce ne possiamo pure andare via!». Bastava sentire l'intemerata collerica del «chimico» Benito Benedini, contro «la logica anti-industriale di questo governo»; contro «Prodi che si dice economista, e ha subito la peggior condanna proprio dagli economisti, che non hanno speso una sola parola di elogio per l'ultima manovrina»; contro Visco «nel cui vocabolario è sconosciuto il concetto di remunerazione del capitale...». E che dire poi della compiaciuta ovazione che ha salutato l'intervento di Marco Vitale, un economista già amico di Prodi, e che dal palco non ha esitato a infilzarlo come «un presidente del Consiglio che parla degli imprenditori come dei "ricchi", con un linguaggio che non usavano nemmeno i primi padri della Chiesa e che non esiste più ormai dal 1200»? E poco importa che a molti queste invettive sarcastiche contro Prodi costino qualche amarezza: poco importa che lo stesso Vitale condisca il suo j'accuse al «governo che ha fallito perché non ha capito cos'è oggi l'Italia», con un mesto «lo dico con dolore, perchè ci avevo creduto». Poco importa che di lì a poco il calabrese Mario Cozza riconosca sconsolato che «con Prodi per noi la disillusione è grande perché grande era stata l'illusione». La realtà è questa, nuda e cruda: Piazza Padrona non ha più alcun feeling con l'Ulivo, e arriva al punto da non fare distinguo nemmeno sui singoli. Non una sola parola è stata detta dagli industriali su Ciampi, non una sola speranza è stata riposta, per dire, sulla personale credibilità del ministro del Tesoro. Per questo, alla fine, a voler tirare le somme di questa giornata per così dire «storica» degli industriali - tornati a mobilitarsi come non facevano ai tempi eroici del primo Centro-Sinistra e della nazionalizzaznione dell'energia - oltre alla rabbia viene fuori una sorta di rassegnata presa d'atto: l'idillio che poteva essere - cominciato quel 23 maggio di un anno fa, con l'ex comunista Veltroni in compassata grisaglia, neo-vicepremier ma non ancora grondante di ebbra retorica ulivista, a schernirli e invitarli, da questo stesso palco dell'Auditorium della Tecnica, ad un «grande patto per lo sviluppo» - non c'è stato e non ci sarà mai. Non potrà mai riuscirci nei fatti, ma Piazza Padrona, con la testa e col cuore, il governo di Centm-Sinistra lo considera già archiviato. O se preferite «spazzato via», come disse qualche mese fa proprio Fossa. Ma il problema - e anche questo fa parte del tirare le somme - è che Fossa guida oggi una Confindustria sofferente e disorientata. Una Confindustria che - come suggeriva anche plasticamente la giornata di ieri, popolata dalle facce e le voci di tanti piccoli e irrequieti «padroncini» molto più che da quelle dei soliti big del cosiddetto salotto buono - è ancora alla ricerca di se stessa. Giustamente non è e non vuol farsi «partito», opportunamente si sforza di essere lobby, nel momento in cui Maastricht impone sacrifici diffusi e la globalizzazione esige flessibilità delle leggi e del mercato del lavoro. Ma non riesce a «sfondare» con un suo progetto di ridisegno globale della società moderna, non riesce a far presa, con un suo sistema di valori condivisi, sul ceto politico e forse nemmeno sull'opinione pubblica. Ci dice molto, cioè, di quello che l'Italia non deve più essere, ma fatica a spiegarci cosa deve diventare. Batte e ribatte su un concetto legittimo che ieri rimarcavano tutti, da Fossa al piemontese Bruno Rambaudi, e cioè che «una politica che uccide le imprese è una politica che uccide il Paese». Ma non riesce a rendere manifesta una sua cultura d'insieme. Questo vale per la politica, dove non sono in questione gli schieramenti (non si tratta ovviamente di scendere in campo a favore dell'Ulivo o del Polo), quanto piuttosto le regole (dove forse, come invocava ieri il lombardo Nocivelli, «vale la pena di tornare attivamente sui temi delle riforme istituzionali, e di chiedere dignità alle imprese anche nella Costituzione»). Ma vale anche per l'economia, dove Confindustria dovrebbe poter sistematizzare un proprio modello di sviluppo: chiarendo una volta per tutte, ad esempio, se il keynesismo è in crisi irreversibile, e se al suo posto debba imperare la pura legge del mercato, ma in questo caso accettandone fino in fondo le conseguenze, a partire dalla rinuncia alle incentivazioni di settore e alle agevolazioni statali. Il compito non è semplice per Fossa, per il vertice e per l'intera base. Ma su questo - più ancora che sui documenti congiunti con le altre categorie - la Confindustria si gioca probabilmente il suo sbocco futuro, e la sua capacità di valicare quei limiti «corporativi» che oggi la spingono a battere le mani per il costruttore Vico Vaiassi che grida «il governo ci prende per il culo» o il pasticciere di Messina Bilie che spara sui «comunisti del 2000», ma che domani devono lasciare il posto ad una cultura della responsabilità, in cui si possano riconoscere e riscontrare interessi collettivi. Come dice De Rita, è la missione di questa ancora giovane «borghesia» produttiva, che chiude la stagione del vecchio capitalismo, ma deve saper aprire quella nuova. Massimo Giannini Ma gli imprenditori rifiutano di diventare un partito politico Al posto dei soliti big vincono facce e voci di mille «padroncini»

Luoghi citati: Fossa, Italia, Messina